Bullismo, vera emergenza sociale del Paese

da Tuttoscuola

Bullismo, vera emergenza sociale del Paese

Una mamma che fotografa suo figlio nella bara, un’altra che accusa pubblicamente i compagni di scuola di aver bullizzato per anni il figlio che, alla fine, ha deciso di togliersi la vita. Questi sono solamente due dei casi più recenti che hanno posto sotto la luce dei riflettori, per l’ennesima volta, l’emergenza bullismo. Il bullismo giovanile è uno dei problemi maggiormente diffusi, privo di confini geografici o di ceto sociale dietro i quali barricarsi, con il quale la nostra società si trova a confrontarsi e fin dalla più tenera età e dalla scuola dell’infanzia. Ne abbiamo parlato in un articolo a firma di Filomena Rossi nel numero di marzo di Tuttoscuola.

Sulla questione esiste ormai un altrettanto diffusa cultura e consapevolezza scientifica con la quale i diversi operatori socio – culturali e la scuola si trovano quotidianamente a relazionarsi e interagire. Pertanto, non volendo e non potendo assumere compiti e funzioni diverse da quelle che mi sono attribuite, la mia sarà una riflessione agita nel tempo e sul campo là dove è stato possibile assistere e vivere le profonde trasformazioni sociali che, per un verso, sono fattori di cambiamento dei modelli educativi, per l’altro e contestualmente, ne sono assoggettati in quanto destinatarie e fruitrici.

Fino a qualche decennio fa, la manifestazione di fenomeni di aggressività tra pari o quasi, per quanto deleteri potessero essere per i destinatari, non avevano raggiunto i livelli attuali di aggressività e violenza fisica e verbale registrati negli ultimissimi anni anche grazie alla facilità d’uso dei nuovi media, soprattutto dei sociali media (Facebook e Instagram in particolare) e tendevano a scomparire nella fase intermedia dell’adolescenza.

Le domande che da più parti sempre più insistentemente sono poste attengono alla ricerca del cosa abbia potuto scatenare le attuali forme di violenza giovanile, del quando il tutto ha avuto inizio e del perché.

Non passa giorno senza che TV, giornali, cinema e social media non rilancino episodi di violenza cruda o di derisione esercitati da uno o più persone in danno di un’altra, a volte, in modo tanto cruento e distruttivo della propria identità e del proprio sé, da indurla ad azioni autolesioniste anche gravi come il suicidio, fortunatamente rare, non riuscendo a intravedere altre vie di uscita e di salvezza.

Noi stessi, se andassimo indietro nel tempo, alla nostra infanzia e adolescenza, non tarderemmo a individuare all’interno dei nostri gruppi di appartenenza episodi che, oggi, non esiteremmo a definire “atti di bullismo”.

Dunque, oltre alla ricerca del cosa stia alla base del bullismo e del perché, dobbiamo interrogarci sulla nostra effettiva capacità fin qui mostrata di rilevare i segnali di cambiamento e di vedere e cogliere negli atteggiamenti e nei comportamenti dei giovanissimi e dei fanciulli le manifestazioni anche latenti di aggressività nelle relazioni interpersonali intra ed extra familiari.

Indubbiamente, di segnali in tale senso se ne sono avuti negli anni, ma essi sono avvenuti in una maniera che potremmo definire discreta e sottotraccia e hanno coinvolto in primis gli adulti di riferimento, genitori e insegnanti. Costoro, dopo aver rotto con il modello educativo di tipo gerarchico e autoritario in essere fino alla fine degli Anni Sessanta, non sono riusciti a sostituirlo con un altro, altrettanto efficace, attraverso il quale superare l’autoritarismo e promuovere il modello fondato sull’autorevolezza di senso e sulla partecipazione condivisa e consapevole.

In altre parole, l’autoritarismo ha ceduto il passo, ma anziché spingere verso l’autorevolezza, ha favorito  la diffusione dell’assenza di ruoli e di funzioni connesse e proprie della genitorialità e della figliolanza. E sull’autorevolezza genitoriale priva, in alcune situazioni, di un’adeguata consapevolezza del proprio ruolo di guida, stimolo e limite ci sarebbe molto da dire. Ugualmente, però potrebbe dirsi anche in alcune situazioni educative formalizzate.

Si è passati dal padre – padrone (ma vale anche per i docenti) al padre (docente) – amico, figure genitoriali ed educative entrambe inadeguate, l’una per la rigidità e la sordità rispetto ai figli – discenti, l’altra per l’incapacità di porsi come modello positivo di riferimento.

Mentre il modello genitoriale del padre e del docente padrone era funzionale e corrispondeva al modello di una società fortemente centrata sulla sottomissione del singolo, senza se e senza ma, all’ordine costituito dalla stessa società e all’interno del quale ruoli, funzioni e status erano definiti, strutturati ed ereditati per lo più alla nascita, al contrario, il modello padre – amico, cui capita spesso di assistere, può rappresentare la prevalenza del singolo sulla società che, a sua volta, diventa assolutamente secondaria rispetto al singolo, là dove per singolo non s’intende più la famiglia – genitori  e figli – ma proprio il singolo individuo.

In questo contesto, il singolo può trovarsi a vedere negli altri singoli un ostacolo da superare per soddisfare il proprio desiderio di affermazione e supremazia o, nel peggiore dei casi, da abbattere dal punto di vista dell’autostima o ancora, in casi estremi, anche fisicamente. Ciò non poteva non determinare la crisi della funzione educativa della famiglia, comunque la si voglia intendere, e, con essa, della scuola. Abbiamo approfondito la tematica nel numero di marzo di Tuttoscuola.