In 10 anni perse 55mila cattedre

da Il Sole 24 Ore

In 10 anni perse 55mila cattedre

di Eugenio Bruno

Nascite in calo. Meno immigrati. Classi spopolate. Cattedre in eccesso. Assunzioni più difficili. Anche nel profondo Nord dei prof notoriamente “introvabili”. È lo scenario distopico e post-apocalittico che sembra partorito dalla penna di Philip K. Dick e che invece emerge da uno studio della Fondazione Agnelli sulla scuola italiana nel 2028. Con annesso invito ai prossimi governi a intervenire senza indugi sull’offerta formativa per gli studenti e sul reclutamento dei docenti per non farsi trovare impreparati.

Il calo demografico

Il paper “Scuola. Orizzonte 2028”, che sarà presentato oggi, tratteggia l’Italia che si siederà tra i banchi da qui a dieci anni. Il combinato disposto già in essere tra la diminuzione del numero di madri potenziali (-10% di 15-45enni tra il 2007 e il 2017) e la riduzione della loro propensione a fare figli porterà per forza di cose verso il basso il plotone dei nostri connazionali in età scolastica. Complice anche il calo di fecondità delle donne straniere e la riduzione dei flussi migratori la Fondazione Agnelli stima una discesa da 9 a 8 milioni di bambini e ragazzi nella fascia d’età 3-18 anni.

Lo “spopolamento” tra i banchi

Gli alunni delle scuole di ogni ordine e grado tenderanno a scendere. Ciò avverrà, salvo rare eccezioni, lungo tutta la penisola. A pagare il conto maggiore saranno soprattutto infanzia e primaria. I piccoli tra 3 e 5 anni diminuiranno infatti del 14% sia al Sud che al Nord e del 17% al Centro mentre i bambini in età 6-10 anni scenderanno del 16% al settentrione, del 19% nelle regioni centrali e del 14% al Meridione. Seppure in misura minore lo stesso fenomeno investirà le medie – dove, ridiscendendo lo stivale, il calo sarà rispettivamente del 10, del 19 e del 9% – e, in parte le superiori. Solo al Centro però (-13%) perché al Nord (+4%) e al Mezzogiorno (+6%) continuerà a prevalere il segno più. Rinviando alla grafica qui accanto per il dettaglio regionale in questa sede conviene soffermarsi sulla riduzione di classi/sezioni che ne conseguirà. Nel complesso l’infanzia ne perderà oltre 6.300, la primaria quasi 18mila, le secondarie di I grado 9.400 e quelle di secondo grado circa 3mila.

Meno alunni, meno prof

L’impatto sugli organici è facilmente immaginabile. Poiché il numero di posti a disposizione ogni anno dipende innanzitutto dal numero di classi che si riesce a formare lo stock di insegnanti da assumere (sia attraverso le stabilizzazioni che mediante i concorsi) secondo lo studio tenderà inesorabilmente (e inevitabilmente) a scendere. Di 55.600 unità per la precisione. Così suddivise: -12.600 alla scuola dell’infanzia, -22.100 alle elementari, -15.700 alle medie e -5.200 alle superiori. Come conciliare questi numeri con il piano di assunzioni avviato dalla Buona Scuola due anni e mezzo fa sarà tutto da vedere. Anche perché la diminuzione dei vuoti da riempire interesserà pure le regioni settentrionali che al momento presentano ancora posti scoperti, addirittura da anni per alcune materie e in certe aree (come la celebre matematica in Lombardia). Con un doppio “effetto collaterale” immaginato dalla Fondazione Agnelli: da un lato, si assisterà a un rallentamento nel turnover dei professori per cui i nuovi insegnanti immessi in ruolo saranno meno di quelli che usciranno (per pensionamenti, ad esempio); dall’altro, a soffrirne saranno anche il rinnovamento del corpo docente e l’innovazione didattica.

Le vie d’uscita

Il paper ne individua due: intervenire o meno. La seconda soluzione, e cioè accettare così com’è la riduzione degli organici determinata dal declino demografico, avrebbe un effetto benefico per le casse dello Stato che potrebbe risparmiare fino a 1,8 miliardi. Ma sicuramente non aiuterebbe il rinnovamento della nostra classe docente, che già oggi è la più anziana d’Europa. Da qui la proposta della Fondazione Agnelli di utilizzare le risorse risparmiate per investire sulla qualità dell’offerta formativa. In tre possibili direzioni. O aumentando il numero di insegnanti per classe grazie alla reintroduzione del modulo didattico alle elementari e della coprogettazione interdisciplinare ai gradi superiori. O riducendo il numero di allievi, come prevede la riforma francese di Macron. O ancora rafforzando in maniera più generalizzata la scuola aperta di pomeriggio. Ed è proprio quest’ultima la strada che il direttore Andrea Gavosto, interpellato dal Sole 24 Ore, suggerisce di intraprendere: «È un nostro vecchio pallino. Sappiamo che è il migliore strumento di contrasto della dispersione scolastica, soprattutto al Sud dove resta oltre il 20 per cento. Si potrebbe usare il pomeriggio – spiega Gavosto – per rafforzare alcune materie, introdurre nuove attività progettuale e avviare i curricula personalizzati sul modello della Spagna e del Regno Unito». Una possibilità che la Buona Scuola già prevedeva e che finora è rimasta sostanzialmente sulla carta.