Tracce di Memoria

Scuola, al Quirinale premiati i vincitori del Concorso “Tracce di Memoria”  alla presenza del Presidente Mattarella

Fedeli: “Le nuove generazioni devono conoscere tragici episodi della nostra storia civile per essere eredi della testimonianza delle vittime
della crudeltà del terrorismo”

“Premiare le scuole vincitrici del Concorso ‘Tracce di Memoria’ in occasione del Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice ha una valenza particolare: attraverso questa iniziativa abbiamo messo le nuove generazioni a contatto con tragici e terribili episodi della nostra storia civile e collettiva, fornendo loro un cospicuo archivio di informazioni e dati e consentendo l’interazione e lo scambio con i familiari di quelle cittadine e di quei cittadini, il cui amore per il nostro Paese e la cui integrità li ha resi oggetto di un odio criminale. Abbiamo scritto una bella pagina di ‘scuola oltre la scuola’: le giovani e i giovani che abbiamo premiato hanno acquisito un sapere che li ha spinti e li spingerà sempre nella loro vita al protagonismo e alla partecipazione democratica, che li rende consapevoli dei valori e dei diritti alla base della nostra convivenza civile. Un sapere che li porta a contrastare qualsiasi forma di violenza, che amplifica in loro il senso di responsabilità nei confronti della collettività, che li rende eredi della testimonianza di donne e uomini che hanno servito il nostro Paese e hanno pagato con la vita questo impegno, soccombendo alla crudeltà del terrorismo”. Così la Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli, che questa mattina ha partecipato, al Palazzo del Quirinale, alla cerimonia di celebrazione del Giorno della Memoria dedicato alla vittime del terrorismo, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Erano presenti, oltre ai familiari e ai rappresentanti delle Associazioni delle vittime del terrorismo, la Presidente del Senato della Repubblica, Elisabetta Maria Alberti Casellati, il Presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, il giornalista e scrittore Ezio Mauro, rappresentanti del Governo e del Parlamento.

Durante la cerimonia il Presidente Mattarella e la Ministra Fedeli hanno consegnato i premi alle scuole vincitrici della quarta edizione del Concorso Nazionale “Tracce di Memoria”, indetto dalla Rete degli archivi per non dimenticare, con la collaborazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo. Ad essere premiati, le studentesse e gli studenti dell’Istituto comprensivo “Monteleone-Pascoli” di Taurianova (RC) per il video “Strada facendo vedrai – Giustizia e legalità”, della Scuola secondaria di I grado “Alfredo Panzini” I.C. 4 di Bologna per il progetto multimediale “Piantiamo la memoria” e dell’Istituto Istruzione Superiore “Leon Battista Alberti” di Roma per il video “New Generation Memory”.

“Attraverso questo Concorso abbiamo voluto promuovere nelle scuole l’approfondimento dei temi e dei protagonisti delle vicende storiche del terrorismo, della violenza politica e della criminalità organizzata avvenute nel nostro Paese. Per ricordare che la nostra democrazia non è scontata, non è stata conquistata una volta per tutte. Va tutelata e salvaguardata ogni giorno. Credo sia importante, poi, che questa premiazione avvenga nella giornata in cui ricorre il 40esimo anniversario dell’uccisione di Aldo Moro. Una giornata, questa del 9 maggio, che ricordiamo anche per la morte di Peppino Impastato. Vogliamo che la loro memoria sia attiva, che il loro operato e i loro insegnamenti siano faro per la vita delle nostre giovani e dei nostri giovani. È la risposta migliore che possiamo dare a chi, uccidendo Moro, ha pensato di poter infliggere una ferita mortale al cuore della nostra democrazia, e a chi, mettendo a tacere per sempre Peppino Impastato, ha pensato di poterlo rendere ininfluente. Da quarant’anni Aldo Moro e Peppino Impastato continuano a vivere in e grazie a tutte e tutti noi”, conclude la Ministra.


Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel Giorno della Memoria dedicato alla vittime del terrorismo

Palazzo del Quirinale 09/05/2018

Rivolgo un saluto ai Presidenti del Senato e della Camera, ai Ministri, a tutti i presenti e a coloro che ci seguono attraverso la tv.

Ringrazio Ezio Mauro per le parole che ci ha rivolto. Ci ha ricondotto con efficacia a tanti momenti ed eventi dolorosi e luttuosi. Ci ha rammentato impegni e doveri cui assolvere. Ci ha presentato prospettive della nostra comune convivenza.

Ringrazio molto Michela Bivacqua e Filippo Ursillo per averci presentato i risultati del loro lavoro: complimenti ragazzi!

Complimenti a coloro che hanno ricevuto un premio, e a quanti si sono impegnati nelle ricerche e nelle attività.

Un ringraziamento al magnifico coro del teatro dell’Opera.

Questa cerimonia austera, sobria – come è giusto – interpreta questo giorno che è di memoria e di solidarietà. Memoria di chi ha pagato con la vita la crudeltà del terrorismo, di chi ha servito le istituzioni e la nostra società, non cedendo al ricatto e alla paura, di chi ha tenuto alta la dignità, divenendo così testimone della libertà di ciascuno di noi.

Ed è proprio la memoria a suscitare solidarietà. Anzitutto nei confronti dei familiari delle vittime, la cui sofferenza, tante volte, è stata aggravata da difficoltà materiali e da quotidiani sacrifici. Ad essi desidero far sentire la mia personale vicinanza, e quella delle istituzioni, consapevole che i sentimenti, che tutti noi oggi esprimiamo, nascono da un senso profondo di umanità e dalla comune coscienza civile.

Questo Giorno vuol essere segno autentico di una comunità che ricorda gli eventi, lieti o dolorosi, che ne hanno attraversato la vita, che sa guardare al futuro proprio perché capace di collegarsi alle proprie radici e di condividere, attraverso momenti difficili e anche dolorosi, un’ideale di persona e di giustizia.

Il nostro Paese è stato insanguinato, dalla fine degli anni Sessanta, da aggressioni terroristiche di differente matrice, da strategie eversive messe in atto, talvolta, con la complicità di soggetti che tradivano il loro ruolo di appartenenti ad apparati dello Stato, da una violenza politica che traeva spinta da degenerazioni ideologiche, persino da contiguità e intrecci tra organizzazioni criminali e bande armate.

Tante, troppe persone sono state assassinate barbaramente e vilmente. Tanti nostri concittadini sono stati colpiti, feriti, hanno portato e portano ancora i segni di quella insensata brutalità. Donne e uomini delle forze dell’ordine, professori, studenti, magistrati, giornalisti, uomini politici, dirigenti d’azienda, commercianti, operai, sindacalisti, militari, amministratori pubblici. Sono divenuti bersaglio perché individuati come simboli, oppure perché l’odio ha preso la forma del desiderio di annientamento, del messaggio trasversale di morte. La logica criminale – e non poteva essere altrimenti – alla fine si è impossessata anche del più ideologico dei gruppi terroristici.

Non dimenticare significa anche fare i conti con questa storia che ha attraversato la vita della Repubblica e ha messo a dura prova quella costruzione democratica che il popolo italiano è riuscito a erigere dopo la Liberazione e che la Costituzione ha reso un patrimonio di valori, non soltanto di norme giuridiche.

Abbiamo appreso che la democrazia non può dirsi mai conquistata una volta per tutte. Abbiamo appreso che la democrazia vince quando non rinuncia a se stessa, ai principi di civiltà che la sostengono, alla libertà, al diritto e al rispetto dei diritti. Abbiamo appreso che ci sono momenti in cui l’unità nazionale deve prevalere sulle legittime differenze: è stata anzitutto l’unità del popolo italiano a sconfiggere la minaccia terroristica.

Si è compreso, di fronte a quell’emergenza, che vi sono momenti che richiamano a valori costituzionali. A impegni comuni; perché non divisivi delle posizioni politiche ma riferiti a interessi fondamentali del Paese, in questo senso neutrali.

Diversi affluenti hanno riempito l’invaso di odio e di violenza. Oggi possiamo dire – e non soltanto per l’insopportabile sequela di vite spezzate – che si è trattato di progetti eversivi, finalizzati a destabilizzare le istituzioni e a disarticolare la nostra convivenza. La violenza, l’omicidio, l’assalto alla democrazia e alla legalità sono il contrario di ciò che persegue fini liberatori: sono sempre moltiplicatori di intolleranza, di sopraffazione, di crudeltà.

Velleità rivoluzionarie della sinistra estrema, manifestate dal brigatismo rosso, trame reazionarie e rigurgiti neo-fascisti, criminali strategie della tensione, hanno avvelenato anni della vita della Repubblica. Ma possiamo convenire su un giudizio storico: la nostra democrazia, aggredita e ferita, è riuscita a prevalere per la forza del suo radicamento nella coscienza del popolo italiano.

Cercare la verità è sempre un obiettivo primario della democrazia. La verità è inseparabile dalla libertà. Tante verità sono state ricostruite e conquistate, grazie anche all’impegno e al sacrificio di servitori dello Stato, mentre altre non sono ancora del tutto chiarite, o sono rimaste oscure. Non rinunceremo a cercarle con gli strumenti della legge, e con un impegno che deve essere corale. Questa ricerca deve accompagnarsi alla riflessione e al confronto sulle radici sociali, ideologiche del terrorismo. All’opposto dei regimi autoritari, la democrazia ha sempre bisogno di sapere, di coinvolgere, di scavare nella realtà, di portare alla luce e non di occultare. Di avere la verità. Tanta strada si è fatta. Nelle attività di indagini, nei processi giudiziari, nel lavoro giornalistico e pubblicistico, nell’approfondimento storico e culturale. In questa giornata, è giusto sottolineare che il percorso va proseguito insieme.

I familiari delle vittime hanno dato un grande contributo per avviare la nostra società a una ricostruzione che svelasse le responsabilità, le possibili connessioni con interessi esterni al nostro Paese, le complicità, i disegni e gli obiettivi criminali. La sofferenza dei familiari è stata tradotta, nelle Associazioni a cui hanno dato vita, nell’impegno civile che ha aiutato la crescita di una consapevolezza collettiva.

Quando la verità è riuscita a emergere, e si è accompagnata, da parte di alcuni terroristi, al riconoscimento delle proprie colpe e alla presa d’atto della mancanza di qualunque giustificazione della loro folle strategia, talvolta si sono anche aperti canali di dialogo personali, e spazi nei quali le coscienze si sono interrogate sul senso della riconciliazione. Sono spazi che la dimensione pubblica non può varcare: si può soltanto rispettare una così grande umanità, che ha fatto seguito a una così crudele disumanità.

Non pochi di coloro che hanno seminato morte e violenza hanno finito di scontare la loro pena, e dunque hanno avuto la possibilità di reinserirsi nella società. Le responsabilità morali e storiche tuttavia non si cancellano insieme a quelle penali, e ciò impone un senso di misura, di ritegno, che mai come a questo riguardo appare indispensabile.

Ci sono stati casi, purtroppo, in cui questa misura è stata superata, con dichiarazioni irrispettose e, talvolta, arroganti, che feriscono e che, insidiosamente, tentano di ribaltare il senso degli eventi, di fornire alibi di fronte alla storia. Questo non può essere consentito.

Bene ha fatto il presidente Giorgio Napolitano – a cui rivolgo un affettuoso saluto – a raccogliere e pubblicare, dieci anni fa, in un volume edito dall’Istituto Poligrafico, tutti i nomi e i volti delle vittime degli anni di piombo, affiancando quanti sono stati colpiti dalle varie sigle del terrorismo rosso a coloro sono rimasti vittime dei terroristi neri e delle stragi che hanno sconvolto il nostro Paese.

Quel documento non è il libro bianco di una democrazia fragile, ma un atto di coraggio dello Stato repubblicano che sa di aver sconfitto le trame eversive e i progetti di destabilizzazione, e che riconosce nei caduti una ragione di unità, un fondamento delle proprie basi morali.

Non dimenticheremo neppure un nome, neppure un volto, neppure una storia.

Quel libro fu pubblicato a cura della Presidenza della Repubblica dopo che il Parlamento decise di istituire questo Giorno della memoria, al fine di ricordare – così è scritto nella legge – “tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”.

Il giorno scelto dal legislatore è quello dell’omicidio di Aldo Moro. Si tratta di una scelta carica di significato. Il rapimento di Moro, lo spietato sterminio degli uomini che lo scortavano, il sequestro, a cui è stato sottoposto per cinquantaquattro giorni, rappresentano indubbiamente il punto più emblematico di quell’attacco che mirava a travolgere l’ordine costituzionale dello Stato.

Si vivevano, allora, tempi insanguinati nelle scuole, nelle strade, nelle fabbriche: la violenza politica si era fatta incombente e, nella nuova generazione, sembrava si dovesse convivere con una degenerazione del conflitto politico. Non tutti, anche nelle élite del Paese, compresero il pericolo e qualcuno evocò inverosimili neutralità tra lo Stato democratico e i terroristi. Proprio nei ceti più popolari e tra i lavoratori, invece, le istituzioni democratiche vennero avvertite come espressione di tutti, del bene comune, e come misura del progresso possibile.

Aldo Moro aveva una straordinaria sensibilità per ciò che si muoveva all’interno della società. Per le nuove domande, per le speranze dei giovani, per i bisogni inediti che la modernità metteva in luce. Non gli sfuggiva la pericolosità di tanto “imbarbarimento” (è una sua espressione) della vita politica e civile. Ma al tempo stesso continuava a scrutare i “tempi nuovi che avanzano”. Le stesse lettere dal carcere brigatista restano una prova della sua umanità, della sua intelligenza, della sua straordinaria tenacia di costruttore.

Oggi, a quarant’anni da quella tragedia, e da tempo, sentiamo il bisogno di liberare il pensiero e l’esperienza politica di Aldo Moro da quella prigione in cui gli aguzzini hanno spento la sua vita e pretendevano di rinchiuderne il ricordo.

Il Giorno della Memoria deve servire anche a questo: a restituirci l’opera, l’insegnamento, le speranze di chi è stato sradicato con la violenza e a mettere tutto questo a disposizione dei più giovani e di chi non rinuncia a costruire. Parlo di Aldo Moro, ma anche dei tanti martiri della democrazia che, come lui, possono tuttora dare molto al futuro della nostra comunità, di cui sono punti di riferimento. Per questo desidero ringraziare tutti gli storici, i ricercatori, gli intellettuali che, in questi decenni, hanno lavorato a liberare la Memoria e a restituirci la storia che ci appartiene, e che non può certo essere limitata al tragico rosario delle efferatezze dei terroristi.

Il corpo di Moro veniva ritrovato, nella Renault rossa, in via Caetani, il 9 maggio di quarant’anni fa. Lo stesso giorno la mafia uccideva Peppino Impastato. C’è un legame che unisce ogni violenza criminale contro la convivenza civile.

Anche nella giornata in cui la Repubblica invita a ripensare la specificità del pericolo terroristico, vogliamo tenere ben presente il nesso di libertà e di giustizia che sostiene l’impegno in ogni ambito per la legalità e il rispetto dei principi costituzionali. Le organizzazioni criminali, qualunque sia la loro origine, esprimono comunque un carattere di eversione che minaccia la nostra vita e restringe le opportunità di tutti. Fare memoria ci deve aiutare a contrastare ogni cedimento, ogni opportunismo, ogni connivenza, ogni zona grigia.

Il terrorismo e la violenza politica che giunsero negli anni ’77 e ’78 al culmine della loro macabra parabola, ebbero poi un rapido declino. Altre vite, purtroppo, furono colpite e stroncate. Altra violenza venne consumata. E apparve a tutti, via via, sempre più insensata, inspiegabile, crudele. Il terrorismo ha sempre cercato di aprire fratture, e di sconvolgere la normalità della vita per rendere deboli le istituzioni e vulnerabile lo Stato. Ma è stato sconfitto proprio dal tessuto sociale, da quell’elemento connettivo, che la democrazia produce, pur nelle sue imperfezioni.

Oggi la minaccia terroristica riveste nuove forme, e nuove modalità. Non sono meno pericolose di quarant’anni fa, colpendo all’improvviso nella società ormai globale e interdipendente. E’ il terrorismo internazionale, che reca anzitutto il segno del fondamentalismo islamista. Non è l’Islam il nemico, ma chi piega la fede religiosa per indurre all’odio e incitare alla guerra tra comunità religiose, tra popoli, tra persone.

Anche in questa stagione, la democrazia può e deve difendersi senza rinunciare ai propri valori, alla propria civiltà, all’idea di persona che fonda i diritti inviolabili. L’opera di prevenzione nel nostro Paese ha mostrato fin qui tutto il valore e la dedizione degli uomini e dei servizi che lavorano alla nostra comune sicurezza. Ma saremo ancora più forti se saremo capaci di far crescere la consapevolezza comune, e di assumerci la responsabilità, che come europei abbiamo, di favorire la pace e di costruire un equilibrio migliore nel pianeta.

Far memoria è parte di questa preziosa opera costruttiva. Far memoria anche di coloro che sono morti innocenti sotto i colpi di questo nuovo terrorismo cieco. Le cronache di questi mesi sono purtroppo piene di eventi spaventosi, di eccidi, di violenze in diverse regioni del mondo. Desidero ricordare, in questa giornata, le vittime italiane in alcune delle tragedie che più hanno sconvolto l’opinione pubblica mondiale.

Nostri concittadini hanno perso la vita nell’attentato del museo del Bardo, a Tunisi, nella strage di Dacca, in quella di Nizza, e ancora nelle Ramblas di Barcellona. Per ricordarli tutti rammento Valeria Solesin, stroncata con tanti altri giovani nel Bataclan, a Parigi, e Fabrizia Di Lorenzo, uccisa, a Berlino, a pochi giorni dal Natale. Le loro speranze devono continuare a vivere nel futuro della nostra comunità: lo dobbiamo a due giovani europee che non intendevano rinunciare alla vita e alle opportunità del tempo nuovo.

Questo è anche lo spirito del Giorno della Memoria, di questo giorno che celebriamo qui, oggi, al Quirinale. Che serve a rafforzare la democrazia, il migliore antidoto che conosciamo contro la violenza, la sopraffazione, e il migliore strumento di tutela della vita e della persona.


Discorso di Ezio Mauro al Quirinale – 9 maggio 2018

Signor Presidente della Repubblica, signora Presidente del Senato, signor Presidente della Camera, onorevole Ministro, autorità, signore e signori,
Proprio in questa giornata e in queste stesse ore, 40 anni fa, il Paese sgomento apprendeva la notizia dell’assassinio di Aldo Moro dopo la lunga prigionia in mano alle Brigate Rosse e la strage dei cinque uomini della sua scorta, 55 giorni prima in via Fani. Una prova durissima per la democrazia, che insieme con quegli uomini uccisi barbaramente era il bersaglio.
Abbiamo visto in questi anni difficili che la crisi economica più lunga del secolo ha attaccato tutta l’impalcatura materiale, istituzionale, culturale della costruzione democratica che l’Occidente si è dato nella lunga tregua del dopoguerra, quel che avevamo creato per proteggerci nel nostro vivere insieme. Di fronte alle difficoltà, abbiamo dovuto prendere atto che la democrazia non basta a se stessa, è una costruzione umana che ha bisogno di cura continua e di manutenzione, è la fatica di una responsabilità comune, per un sistema di garanzie e di libertà che ci scambiamo l’un l’altro vivendo, nel quadro della Costituzione repubblicana che fissa i nostri diritti e i nostri doveri e disegna le istituzioni che reggono la vicenda pubblica.
Sembra incredibile che proprio questo sistema di libertà riconquistate sia stato messo sotto attacco frontale in un periodo recente della nostra storia dal terrorismo eversivo che ha attentato direttamente al fondamento democratico dello Stato repubblicano, come se fosse qualcosa di revocabile di fronte alla pubblica opinione nazionale, un valore ancora non consolidato nella coscienza del Paese, una conquista transitoria dentro il percorso di un secolo – il Novecento – che non aveva ancora chiuso i suoi conti con la storia.
Sembra impossibile che una frangia della generazione cresciuta nella democrazia riconquistata dopo un ventennio di dittatura, e nella libertà ristabilita dopo gli orrori della guerra, non abbia sentito il fascino della sfida repubblicana per un meccanismo democratico che rigenera continuamente se stesso nel Parlamento e nel Paese, nel rapporto tra le culture politiche organizzate e i cittadini. E che al contrario, dopo gli incubi che avevano sconvolto l’Europa, abbia potuto cedere a utopie di opposta sopraffazione, che hanno la loro radice nelle ideologie totalitarie del comunismo e del fascismo, dichiarando guerra allo Stato attraverso l’attacco alle singole persone e alla comunità. Come un controsenso, questi progetti rivoluzionari sono cresciuti nel cuore nel benessere post- bellico, nel più lungo periodo di pace che l’Europa ha conosciuto, in mezzo a un Occidente che alzava la bandiera della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni: ma oggi accade la stessa inversione di senso storico, quando ragazzi islamici di seconda generazione, cresciuti ed educati nei nostri Paesi si spogliano dei valori di libertà del nostro mondo per rivestirsi di quella cultura jihadista di morte di cui i loro padri si erano liberati, scegliendo di vivere secondo le nostre leggi, che fissano la cornice di diritti e di doveri. E questo accade proprio quando la democrazia ha prevalso in Europa sui due totalitarismi che avevano insanguinato il secolo, tanto che si era affacciata sul nuovo millennio pensando di essere la nuova religione civile di carattere universale. Oggi dovremmo essere noi per primi testimoni più convinti, più fedeli, più coerenti, della libertà e della democrazia che i nostri sistemi producono e garantiscono a chi rispetta le leggi, le costituzioni, i diritti e le libertà degli altri cittadini. Sapendo che il terrorismo islamista, ideologizzando una religione, vuole colpire proprio la normalità quotidiana della nostra vita associata, la libertà con cui ogni giorno portiamo i nostri figli a scuola, riuniamo i nostri parlamenti, decidiamo di pregare o di non pregare, organizziamo il nostro lavoro e il nostro tempo libero, ci scambiamo quei riconoscimenti reciproci che danno forma materiale alla democrazia occidentale. E’ questo valore d’uso quotidiano della democrazia come pratica di libertà che li arma contro l’Occidente, è questa normalità della libertà l’eccezione occidentale che dovremmo difendere. Gli innocenti siamo noi, cittadini trasformati in bersaglio proprio in quanto testimoni di una cultura di convivenza, di responsabilità comune, di libertà.
Studiosi come Marc Lazar hanno scritto che negli Anni Settanta il nostro Paese ha attraversato una guerra civile a bassa intensità. E’ un’analisi senz’altro vera, a cui bisogna però aggiungere un elemento: è stata soprattutto una guerra asimmetrica, perché dichiarata da una sola parte, organizzata e combattuta nell’ombra contro chi credeva di vivere nella pace e nella sicurezza di un sistema liberale e democratico, dove potevano confrontarsi – in Parlamento e fuori – le correnti di pensiero più diverse e anche estreme, cedendo allo Stato il monopolio della forza. La bicicletta su cui Marco Biagi tornava a casa dalla stazione di Bologna in via Valdonica, la sera del 19 marzo 2002, è proprio questo, il segno di una confidenza civile, fiduciosa e disarmata, come la stilografica che Carlo Casalegno aveva in tasca mentre i brigatisti lo aspettavano in corso Re Umberto 54 a Torino, il taccuino di Walter Tobagi a Milano, la borsa di Massimo D’Antona a Roma, la toga che l’avvocato Fulvio Croce aveva voluto indossare – e che gli costò la vita – per permettere che lo Stato potesse celebrare il processo al nucleo storico delle Brigate Rosse a Torino, o la cartella di plastica con cinque pratiche per la pensione che Antonio Cocozzello teneva stretta mentre i colpi di pistola di Patrizio Peci gli facevano esplodere le gambe, davanti a casa. Una bicicletta, una penna, due borse, un quaderno, una toga: strumenti di una normalità quotidiana trasformata in bersaglio, nella sproporzione incolmabile che esiste tra chi si apposta con una pistola puntata per uccidere e chi conduce la sua vita libera tra uomini liberi, da cui non deve guardarsi. Ma in più, in quegli individui singoli trasformati in vittime c’è il paesaggio comune e silenzioso del lavoro, la tranquilla coscienza di un impegno che contribuisce alla crescita della società, con l’arringa di un avvocato, lo studio di un giuslavorista, l’articolo di un giornalista, la divisa di una guardia carceraria, l’analisi di un dirigente aziendale, l’impegno di un uomo politico. Colpendo un cittadino – ogni volta nei volantini trasformato in simbolo per la sua funzione – i terroristi non si accorgono di sparare sul sociale, su quell’articolazione di mestieri, saperi, responsabilità e competenze che forma una rete di coscienza civile, una cultura del lavoro e della responsabilità, naturale perché diffusa e spontanea.
Poi ci sono le famiglie. Anzi, dovunque in questa storia ci sono le famiglie delle vittime. Nel momento dell’agguato, delle stragi, delle bombe, dell’indicibile scoperta del male precipitato proprio su di loro, all’improvviso, nel loro Paese, che aveva promesso e garantito sicurezza e libertà. Poi gli anni della solitudine, quando la ferita pubblica viene dimenticata e bisogna fare i conti da soli con la tragedia privata. Infine il carattere perenne del danno, del torto, dell’ingiustizia, dell’incredibile: aver dovuto testimoniare con il sacrificio personale, con il lutto, con il sangue un’esperienza storica impazzita per un decennio, poi implosa nel suo fallimento clamoroso dopo l’apice del delitto Moro, ma lasciando una conseguenza di gesti irreparabili, vite spezzate, famiglie che ancora oggi chiedono perché.
Quando si dice “anni di piombo”, usando una formula di Margarethe von Trotta, si intende il decennio dei Settanta, che si apre e si chiude con due stragi ancora senza una verità conclusiva, piazza Fontana coi 17 morti e gli 88 feriti del 12 dicembre 1969, e la stazione di Bologna con gli 85 morti e i 200 feriti del 2 agosto 1980. Ma bisogna ricordare anche i 6 morti e i 66 feriti della strage di Gioia Tauro del ’70, i 3 morti e i 2 feriti della strage di Peteano del ’72, i 4 morti e i 52 feriti della strage della questura di Milano del ’73, gli 8 morti e i 102 feriti della strage di piazza della Loggia a Brescia del ’74, i 12 morti e i 105 feriti della strage dell’Italicus il 4 agosto del 1974. Un Paese che deve contare i suoi morti per strage, il terrorismo nero, gli apparati deviati, le verità mancanti. Un Paese che in quel decennio vede impazzire l’ipotesi rivoluzionaria nella metà del campo della sinistra, e scendere in strada una selva insanguinata di duecento sigle armate, in un clima di violenza che farà più di 600 morti e tremila feriti.
“Quei morti e quei feriti reclamano una spiegazione – dice oggi Giovanni Moro – come mio padre, un fantasma che ricorda quei doveri nei suoi confronti che non sono stati compiuti”. Il primo dovere è la memoria, per non dimenticare. Sapendo che la memoria è selettiva, dunque rischia di essere ingiusta. Ricorda i nomi più famosi, quelli legati ad eventi particolari, quelli che con la loro morte hanno segnato un’epoca. Ma dimentica i più umili, sconosciuti, scelti non per la notorietà ma per la funzione, perché portavano una divisa, perché mantenevano la famiglia facendo il guardiano ai cancelli Fiat, il poliziotto, la guardia carceraria, il medico: trasformati in vittime – potremmo dire – perché cittadini. Erano bersagli anonimi mentre vivevano, sono diventati numeri negli annuari e nelle statistiche dopo gli attentati che li hanno uccisi.
Ma dietro quei numeri ci sono storie, famiglie, vedove, bambini che sono cresciuti guardando una fotografia sulla credenza. Come i ragazzi Calabresi, che conosco. Ma potrei citare molti altri. Potrei ricordare case di ringhiera, a Torino,, dove giovani mogli con due bambini in braccio si mettevano già a urlare dall’alto quando sentivano arrivare le sirene nel cortile e i lampeggianti annunciavano uno Stato che saliva per le condoglianze scale di solitudine, dove per fortuna ha poi imparato faticosamente negli anni a ritornare, per bussare di nuovo a quelle porte, per aiutare quei ragazzi a crescere sapendo che il danno di quella stagione è per sempre, ma la Repubblica lo sa, è ferita con loro, è dalla loro parte. Per questo abbiamo due obblighi che ci riguardano tutti: dobbiamo memoria, e dobbiamo verità, perché la verità è la vera, suprema forma di giustizia. Nella consapevolezza, tuttavia, che la democrazia ha vinto la sfida con il terrorismo, in quegli anni. Fragile, imperfetta, incoerente, a tratti infedele, la democrazia è riuscita a prevalere, ha sconfitto il mito della falsa rivoluzione. E lo ha fatto senza leggi speciali, senza sfigurarsi. Perché la democrazia ha il diritto di difendersi quando è sotto attacco, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa, sapendo che si salva non ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, ma soltanto se porta in salvo con sé le sue buone ragioni, preservandole intatte.