Greco e latino non sono lingue morte: vivono nel liceo classico

da ItaliaOggi 

Greco e latino non sono lingue morte: vivono nel liceo classico

di Gianfranco Morra
Matteo Renzi non ebbe dubbi: «La buona scuola» intitolò i pochi interventi, per lo più organizzativi, fatti dal suo governo (fra i quali la famigerata limitazione dei licei a quattro anni). Purtroppo né studenti, né docenti erano d’accordo. Anzi. «Buona» è una scuola che serve, ma a che cosa? Le società e le culture sono diverse e propongono scuole diverse. La nostra, oggi, privilegia il fare e il lavoro, il presente e il progresso. Ciò che più conta sono l’inglese e la tecnologia.C’è del vero in questa pretesa, anche se riduce la scuola ad un corso purtroppo poco efficiente di avviamento al lavoro. La scuola deve essere anche questo, ma non solo questo. E non dovrebbe tagliare i ponti con la tradizione europea, che è quella che va dai «collegia» dei gesuiti e dei protestanti sino al liceo classico di Gentile. Che erano scuole formative, dalle quali usciva la futura classe dirigente. Ce lo ricorda un grecista dell’Università di Bologna, Federico Condello: La scuola giusta. In difesa del liceo classico (Mondadori, pp. 264, euro 18). Un’opera lontana da apologie e polemiche, che ripercorre la storia della più alta scuola europea e disvela le autentiche finalità del Liceo classico, nato da una riforma, quella di Gentile, che nulla ebbe di fascista. Ma non è una scuola di élite, sorpassata e fuori del tempo?

Al contrario. È una scuola che raccoglie e adatta la tradizione, i cui saperi sono arricchiti e rinnovati; una scuola di qualità, ma aperta a tutti, che democratizza il capitale simbolico, favorisce l’eguaglianza scolastica e la mobilità tra le generazioni, educa alla riflessione e alla critica (negli anni Trenta tutto l’antifascismo vero degli intellettuali nacque nei licei classici). Ma, insistono i confusi e dogmatici «innovatori», studiare ancora storia e letteratura, greco e latino, queste lingue «morte», serve poco. Non è così: quando i giovani le studiavano, uscivano dai licei capaci di ciò che oggi non sanno più fare: parlare e scrivere in lingua italiana.

Come, tanto e più di tanti aveva capito Giovanni Guareschi: «Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata, non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire, e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto «sonoro», potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino» (nel Candido, 1956, n. 18).