Ridateci la maturità

da Corriere della sera

Ridateci la maturità

di Alessandro D’Avenia

«Prof, come sarà la nuova maturità?». È stata questa la prima domanda dei miei studenti, nella prima ora di lezione in quinta. «Ci sarà la terza prova? I crediti verranno ricalcolati? E la tesina?». Domande inevitabili, alle quali ho dovuto rispondere — non senza imbarazzo — con il solito triste adagio: aspettiamo. Tutti sanno che quest’anno la maturità cambierà, ma nessuno sa esattamente come: chi ha costruito per tempo i propri obiettivi didattici sarà probabilmente costretto a rivederli alla luce delle direttive ministeriali. Come se non bastasse, l’assegnazione delle cattedre è incompleta, tante sono le classi scoperte e i colleghi in attesa. In molte città anche le aule sono insufficienti. Alcuni ragazzi, a Pistoia, a causa dell’inagibilità dei locali scolastici, stanno lottando per fare i turni pomeridiani pur di far partire l’anno. In una scuola di Napoli professori e alunni sono stati spediti al mare per permettere la rotazione delle classi, il cui numero è superiore alle aule. È una malattia endemica del Paese: non pensare alle cose «per tempo». Ma torniamo alla mia quinta.

Comincio con un appello lento, nome per nome. Guardo il loro volto abbronzato per coglierne piccole o grandi trasformazioni, e chiedo a ciascuno di raccontare «la cosa più felice» delle vacanze. Una sola. So dove voglio arrivare e ho bisogno dei loro ricordi. Di solito i racconti felici, estivi e non solo, si collocano in due territori paralleli dell’anima.

I l primo riguarda le scoperte personali relative ad attitudini e passioni, e quindi al futuro: «Ho passato due settimane in una scuola americana, affiancando le maestre nell’attività didattica», «Sono riuscito a fotografare Marte come non si riusciva da tempo, perché quest’estate era particolarmente visibile»… Il secondo ha a che fare con la condivisione: «Un viaggio a Londra con la mia migliore amica», «Una nottata di chiacchiere fino all’alba»… Tutto ciò che hanno detto era in linea con la parola che avrei definito in quella lezione: «maturo». Amo restaurare le parole con le crepe, prima che vadano in frantumi.

Sono però partito dalla parola «felicità», dicendo loro che è sinonimo di maturo. Non ci credevano. «Felix», in latino, indicava semplicemente l’albero che dà frutto (la radice è la stessa di fecondo): «arbor felix» era per il contadino l’albero che porta frutti buoni, pronti per essere imbanditi in tavola o usati per nuove seminagioni. L’albero felice è l’albero fertile, nutre e dà altre piante. La parola «felice» occupa la prima pagina dei libri di psicologia come motore della vita umana. E, a conti fatti, i due ambiti che consentono di definirci felici sono la costruzione di relazioni autentiche con gli altri e la realizzazione delle proprie attitudini nella vita, non solo professionale. I due aspetti, in continua crescita se non si vuole che la vita si fermi e invecchi, sono proprio i due territori della «felicità» dei racconti estivi. Uno di loro mi ha chiesto quale fosse stata per me la cosa più felice, e ho raccontato i giorni trascorsi al mare con i miei familiari, riposando, chiacchierando, leggendo, scrivendo… Ero stato felice perché avevo tutto quello che serve ad esserlo: potevo tranquillamente prescinde re da ciò che durante l’anno sembra imprescindibile: internet, tv, telefono… Amiamo la nostra condizione estiva perché ci permette di abitare proprio i due territori capaci di renderci felici, cioè fecondi: relazioni e vocazioni.

A questo punto era venuto il momento di passare al termine «maturo», perché l’albero felice dà frutti maturi, né acerbi né marci. La parola maturo ha una storia affascinante, ed è l’orizzonte che presento ai miei studenti per liberarli dall’ansia dell’esame e aiutarli a concentrarsi sull’essenziale che servirà ad affrontarlo, indipendentemente dal risultato. Maturo è imparentato con: mattutino, (do)mani, mese… parole derivanti da una radice che indicava il misurare e si utilizzava per le cose del grande misuratore: il tempo. Per questo maturo indica propriamente: «ciò che arriva a tempo, di buon’ora, e quindi a perfezione, a compimento, detto soprattutto di frutti o messi, nel giusto accordo con le stagioni».

La storia della parola ci obbliga a spostare la nostra attenzione dalla statica (maturità) alla dinamica vitale (maturazione). Chi è maturo? Colui che arriva per tempo, quindi la maturazione non è compatibile con la pigrizia o con la fretta: i frutti maturano nella stagione giusta e nelle precedenti si preparano; maturo è colui che arriva a compimento, quindi bisogna aver chiaro quali aspetti della propria persona occorre curare perché diano il frutto atteso; maturo è colui che sa misurare i fenomeni, ed è quindi capace di affrontare la realtà a partire da una presa di posizione «radicata» — senza radicalismo — sul mondo, per non lasciarsi trasportare dai venti emotivi e nei luoghi comuni. Maturo, insomma, è chi misura e si misura con la realtà. Per questo ho ripreso le parole con cui Enrico V, nell’omonima opera shakespeariana, incita i soldati. Le condizioni sono avverse, i nemici molto più numerosi. Il re Enrico vince la loro paura ribadendo che non vuole un solo uomo in più, perché la vittoria è da un’altra parte: «Quando l’anima è pronta, lo sono anche le cose». Per me è il motto per l’anno della maturazione e della maturità, l’opposto di chi ci dice di affrontare le cose solo quando siamo sicuri di poter avere successo: «quando le cose sono pronte allora l’anima lo sarà». È questo l’alibi che imprigiona il senso dell’avventura proprio del giovane, la cui maturazione può avvenire solo con il coraggio di uscire da se stesso e rischiare la vita, affrontando il vuoto che ogni scelta comporta: «avventura» viene da ad-ventura, le cose che accadranno, per le nostre scelte, senza che possiamo controllarne l’esito. Abbiamo barattato l’avventura con l’ossessione per la «sicurezza», fonte di paura che porta a rifugiarsi in copioni dettati da altri, pur di non fallire. Così il successo (risultato) ha sostituito il processo (vita): ci si impegna per qualcosa se è facile, comodo o garantito. Esattamente il contrario di ciò che fa il seme per maturare, cioè uscire da sé, per dare un giorno i frutti scritti nel suo stesso innato dinamismo.

Il corpo e il cervello di un adolescente condividono questo slancio, che si esaurisce attorno ai 20 anni. L’espansione del cervello adolescenziale è simile a quella di un bambino da 0 a 6 anni, una spugna di esperienze ma con la differenza degli effetti reali delle proprie azioni, non più controllate dai genitori. La natura, che n on fa nulla a caso, ha dotato l’adolescente di tale energia per farlo uscire dall’inerzia infantile. La scelta di lasciare casa, inaugurare un lavoro, costruire un proprio nucleo familiare, è frutto della spinta naturale a dar vita al nuovo, vincendo la seduzione della sicurezza che preferisce im-plorare (piangere perché la realtà non ci soddisfa) a es-plorare (misurarsi con la realtà facendo scelte coraggiose). Maturo è chi lascia casa per inaugurarne una propria. Imbandisce i suoi doni per altri e dà nuovi frutti in nuove generazioni. Può farlo se ha colto, nella stagione di preparazione, quale novità è venuto a introdurre nel mondo, sviluppando le risorse che ha già. La maturità è uno degli ultimi riti di passaggio rimasti a segnalare la necessità di una svolta vitale. Gli educatori sono quindi giardinieri che mettono il seme in condizione di fruttificare, e poi potano, non per mortificare, ma per concentrare la linfa, che un giorno renderà «felix» l’albero: fecondo. Tante crisi di felicità sono crisi di infecondità esistenziale.

Ho detto ai ragazzi che la maturità potranno ottenerla tutte le volte che aggiungeranno una gemma che, a suo tempo, darà frutto, sia nella vocazione professionale (astrofisica per il ragazzo di Marte, educazione per la ragazza della scuola?) sia nella cura di relaz ioni sane, allontanando quelle che avvelenano e scegliendo, in modo molto accurato, amori, amici e maestri. Soltanto così potranno essere felici e rendere altri felici, dare frutto in un Paese in cui la maturità la dovrebbe affrontare, purtroppo, il sistema scolastico: un sistema non a tempo, incapace di realizzare l’originalità di un giovane, che non è eccentricità, ma esplosiva tensione al compimento di ciò che, in lui, è originario e ancora potenziale.

Il letto da rifare oggi è nei versi della poesia «Un’adolescente» del nobel Wislawa Szymborska. La poetessa 86enne immagina di incontrare se stessa 16enne. Non hanno in comune neanche una cellula, tutto è cambiato. Eppure c’è qualcosa che dà continuità: la stessa passione per la scrittura che allora si manifestava in poesie ancora acerbe, e una sciarpa, cucita all’uncinetto dalla madre, che ancora lei conserva. Nulla dell’essenziale è andato perduto, si è misurata con il tempo e il tempo l’ha misurata: «Sul suo modesto orologio/il tempo è ancora instabile e costa poco./Sul mio è molto più caro ed esatto». L’albero ha dato frutto, è una donna felice, perché ha portato a maturazione la sua vocazione e ha curato le relazioni essenziali. Non è invecchiata, è maturata .