Disabilità, “meglio a casa che in istituto”

Redattore Sociale del 24-10-2018

Disabilità, “meglio a casa che in istituto”: parola di mamma caregiver

ROMA. Lo spot della Sacra Famiglia, che evidenzia le “luci” della disabilità in istituto e le “ombre” della disabilità in casa, suscita qualche perplessità, soprattutto tra chi spende la propria vita accanto a figli che necessitano di un’assistenza continua. E’ il caso di due mamme, entrambe con figli ormai adulti, entrambe dedite alla cura di una donna e di un uomo che da soli non riescono a fare quasi nulla: Elena Improta è la mamma di Mario, che ha 30 anni; Marina Cometto è la mamma di Claudia, che di anni ne ha ormai 45.

Elena Improta, impegnata non solo dal punto di vista familiare ma anche da quello politico e associativo (è presidente dell’associazione Oltre lo sguardo, che in Maremma partecipa al tavolo di coprogettazione sul Dopo di Noi) per la difesa dei diritti degli adulti (e non solo) con disabilità, non è radicalmente contro l’istituto: “Le persone anziane, per esempio, nel momento in cui presentano anche una condizione di disabilità, sono soggette a patologie organiche e necessitano soprattutto di un intervento sanitario: in questo caso, l’istituto è necessario. Ma dobbiamo far valere proprio il principio che la persona disabile non è malata e normalmente non necessita di interventi sanitari, ma di percorsi riabilitativi, ricreativi e di socializzazione: non si può pensare di tenere in istituto persone adulte con disabilità, laddove non ci siano tracheotomie, peg e altre forti esigenze medico-sanitarie. Anche se – precisa Improta – perfino molti che vivono questa condizione di gravità scelgono di restare a casa propria. Non abbiamo ancora capito che non è la disabilità in sé a rendere infelice o sola una persona, come invece sembra nel video. Abbiamo la legge sul dopo di noi, che parla chiaramente di deistituzionalizzaizone, cohousing, abitazioni a moduli, fondazioni che attivano percorsi riabilitativi, dove per riabilitazione non si intende solo la parte sanitaria, ma piuttosto la possibilità che si offre alla persona di sperimentarsi. Noi non vogliamo i nostri figli in istituto, nel futuro che li attende, ma in moduli abitativi, condomini sociali, strutture di cohousing, in cui siano liberi di uscire (come non accade in istituto) e sperimentarsi in altre forme di quotidianità, che li faccia sentire degni di essere chiamate persone”

Una “brutta impressione” ha ricevuto dallo spot anche Marina Cometto, da ormai più di 40 mamma e caregiver principale di una figlia con gravissima disabilità. “Sembra che la risposta alla solitudine di una persona con disabilitá debba essere per forza la residenza in struttura – osserva – dove ci sono tra l’altro orari da rispettare, non certo cuciti sulle necessità della persona. Da mamma di una donna con grave disabilità, assicuro che la vita quotidiana nella propria casa, tra le pareti che sono familiari e in cui ci si sente protetti è ineguagliabile: mangiare quando e cosa si vuole, fare attività varie, uscire, leggere, stare al pc, o ricevere persone a casa, che siano amici o parenti oppure assistenti, ma che rispettano e aiutano tutti l’autonomia della persona con disabilitá, pur se limitata. Già avere la libertà di svegliarsi e alzarsi quando si vuole significa autonomia. Io, per me, vorrei l’assistenza domiciliare, non il ricovero in.struttura, per essere protagonista della mia vita, pur con tutti i limiti e la complessità, per sentirmi libera di essere e di fare. Non si è spenti e tristi nella propria casa – come si vede invece nel video – se si hanno amici, parenti e assistenza: al contrario si è gioiosi e con voglia di vivere. Francamente, io non vedo nulla di positivo nel dovermi alzare quando lo decidono gli altri, mangiare a orari prestabili, fare la doccia o il bagno solo se gli operatori sono disponibili: per me tutto questo somiglia molto a una prigione, che non vorrei mai, né per me né tantomeno per Claudia”. (cl)