La Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro nel XXI secolo

La Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro nel XXI secolo

di Margherita Marzario

Abstract: Educare i bambini all’esercizio dei diritti al gioco e al lavoro nel mondo odierno

Quando si era piuttosto lontani dalla riforma del diritto di famiglia in Italia, con la legge 19 maggio 1975 n. 151, e dall’adozione della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a New York nel 1989, e non imperava la nuova cultura dell’infanzia, nel giugno 1967 a Roma il Comitato italiano per il gioco Infantile (sciolto nel 1996), tenendo conto dei principi di diritto internazionale sino ad allora elaborati e dei risultati dei convegni internazionali svoltisi negli anni precedenti, ha redatto la “Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro”, denominata “Carta italiana”.

Nonostante siano passati più di 50 anni e pur essendo una Carta a livello locale, e non internazionale, e una Carta di “orientamenti”, e non di obblighi o impegni, essa costituisce tuttora una sorta di “libro bianco” in materia dei diritti dei bambini nella realtà del nostro Paese.

“Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini” (Dante Alighieri). “Finché sai essere bambino con i bambini, è ancora tua la chiave del paradiso” (proverbio del Tibet). “Ogni bambino che nasce ci ricorda che Dio non è ancora stanco degli uomini” (lo scrittore bengalese Rabindranath Tagore). “Ogni bambino che nasce è un ponte verso il cielo” (papa Giovanni XXIII).

Il bambino racchiude qualcosa di misterioso e prezioso per ogni cultura.

E così l’art. 1 della Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro si esprime: “La personalità del fanciullo è sacra”. Sacralità non significa porre il bambino su un piedistallo, in una nicchia o sotto una campana di vetro, né adorarlo o idolatrarlo o osannarlo, ma riconoscere, salvaguardare e promuovere l’unicità e la specialità di ogni bambino.

Fra Danilo Salezze, esperto di problematiche sociali, spiega: “Ogni bambino è il «padre» dell’uomo che egli diventerà. Nel suo sguardo ci sono già le sfide, le promesse e le speranze che la vita e il mondo hanno in serbo per lui”.

Etimologicamente “sacro” deriva da una radice della lingua indoeuropea col significato di “separazione, recinto”. Il sacro, perciò, “è un concetto fondante, puro, non contaminato, luogo dell’assoluto e del divino, separato dal resto, schierato come unico al di qua del recinto”. Ogni bambino è fonte di vita, fondamento della sua vita.

Il filosofo e antropologo francese René Girard scrive: “Due desideri che convergono sullo stesso oggetto si fanno scambievolmente ostacolo. Qualsiasi mimesis [rapporto di imitazione] che verta sul desiderio va automaticamente a sfociare nel conflitto”. I figli non possono e non devono essere un diritto né oggetto di desiderio perché non sono mai oggetto e, quindi, nemmeno oggetto di contesa.

Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini, consulenti e formatori, precisano: “Oggi abbiamo tutti la presunzione-certezza che un figlio è un bene privato: è un’esclusiva, appartiene alla mamma e al papà (e quando va bene un po’ anche i nonni). “Mio” figlio, magari “fabbricato” con tecniche di fecondazione eterologa, con tre eredità genetiche, con utero provvisorio e pagato: ma qui “mio” è quanto di più violento ci sia, è una privatizzazione che genera muri”. Ancor prima del concepimento i potenziali genitori si dovrebbero interrogare su quale valore e orientamento danno alla vita, alla loro vita e alla nuova vita “in nuce”.

Il saggista Goffredo Fofi ricorda: “Diceva Korczak [grande pedagogista polacco] in un altro agile libretto, Il diritto del bambino al rispetto […], che per gli adulti e gli educatori non si tratta, come spesso essi dicono, di «abbassarsi» al livello del bambino per trattare con lui al livello della sua piccolezza, bensì di «innalzarsi» al livello della sua altezza e grandezza, della libertà del suo sguardo nell’accostarsi alla vita e nell’affrontarla, della sua novità.

«Il bambino, mio signore», scrisse una volta la Montessori…”.
“Di fronte alle richieste dell’adulto su cosa pensa o che cosa vuole, l’adolescente guarda dentro di sé e non vede niente – spiega Fabrizio Fantoni, psicologo e psicoterapeuta -. Spesso non è neppure abituato ad ascoltarsi, ad agire in base a progetti che non siano quelli quotidiani del tirar notte, o della risposta istintiva e momentanea. Occorre un lavoro paziente e lento da parte dell’adulto. Di ricupero della rappresentazione che il ragazzo ha di sé stesso. Dei suoi elementi di forza e di sicurezza: sul piano fisico, relazionale o delle capacità acquisite. Bisogna ripristinare piano piano i ricordi di com’era da bambino, dei rapporti più o meno significativi con i genitori nell’infanzia e di come si possa mantenere quel patrimonio anche oggi che si è grandi. Talvolta la sensazione di deserto interiore trova le sue origini in relazioni familiari basate sul silenzio, sulla reciproca distrazione o sull’imposizione di regole, e non sullo scambio di pensieri, parole, emozioni. Occorre un allenamento di lungo periodo in cui ricostruire il senso del valore di sé e del rispetto che il ragazzo deve a sé stesso. Solo così ci si può sentire capaci e degni di desiderare qualcosa per sé e di provare a realizzarlo”.

Affinché il bambino possa vivere l’adolescenza come una fase fisiologica e non patologica della vita, è necessario che viva pienamente l’infanzia, che eserciti il diritto all’infanzia, che sia allenato alla vita.

Si realizza in questo modo il contenuto dell’intero art. 1 della Carta: “La personalità del fanciullo è sacra; per garantirne il libero, totale ed armonico sviluppo la società è tenuta ad offrire ad ogni fanciullo un ambiente familiare, scolastico e comunitario dotato dei necessari mezzi e di personale appositamente preparato”.

Didascaliche le parole dello scrittore tedesco Eckhart Tolle: “Quando riconoscete la sacralità, la bellezza, l’incredibile quiete e dignità in cui esiste un fiore o un albero, aggiungete qualcosa al fiore o all’albero. Attraverso il vostro riconoscimento, la vostra consapevolezza, anche la natura giunge a conoscere sé stessa. Giunge a conoscere la sua propria bellezza e sacralità attraverso di voi! Un grande spazio di silenzio sostiene tutta la natura nel suo abbraccio. Sostiene anche voi”.

Ciò si avvera quando si riconosce la sacralità della nuova vita, la sacralità dell’infanzia: necessaria non solo all’infanzia ma per ridare a tutti speranza, sperma di vita.

L’art. 2 della Carta italiana prescrive: “Perché possa svolgere le sue attività di gioco e di lavoro, il fanciullo ha bisogno di convenienti rapporti umani; nonché di spazi, di tempi, di mezzi, di materiali e strumenti idonei alla sua età ed adatti alle sue condizioni fisiche e psichiche”. Condizioni che mancano sempre più spesso ai bambini di oggi.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini avvisa: “Proprio alcuni psichiatri statunitensi hanno denunciato il rischio di diagnosticare troppo facilmente il cosiddetto «deficit di attenzione e iperattività». Ne può conseguire che la gestione delle classi scolastiche viene medicalizzata: ai ragazzi difficili è proposto un farmaco, con relativi effetti collaterali; un marketing astuto intercetta la stanchezza di insegnanti sovraccarichi di lavoro e di famiglie nucleari dall’agenda congesta. Il mito della produttività rinforza l’idea che sia fisiologico per tutti gli studenti passare cinque ore seduti dietro un banco ogni mattina. L’immaturità e l’irrequietezza non sono una malattia e andrebbero affrontate gradualmente con tattiche educative, modificazioni ambientali, sostegno psicologico”.

Anche Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, afferma: “[…] i bambini più “agitati”, quelli più “indomabili” spesso fanno così perché vogliono che qualcuno si accorga di loro, perché preferiscono avere una mamma arrabbiata piuttosto che una mamma triste”.

Lo psicologo Simone Feder aggiunge: “I bambini hanno bisogno, e ce lo dicono chiaramente, di passare tempo libero a fare cose con i loro genitori, dove “fare cose” è fare cose con le mani: costruire, preparare la torta, andare in bicicletta. Il problema è che troppi genitori non sono più capaci di passare tempo realmente condiviso con i loro bambini”.

Come è scritto nell’art. 2 della Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro, “[…] il fanciullo ha bisogno di convenienti rapporti umani”: affermazione ancor più attuale in un mondo diventato disumano e disumanizzante. È una frase davvero unica ed è coronamento dell’altra “la personalità del fanciullo è sacra”: è un bisogno incorporato e imprescindibile e non un mero diritto; è fondamentale per lo sviluppo e il rispetto della personalità, ovvero la sacralità; si evidenzia l’aggettivo “umani”, contrapposto a quello che succede attualmente in quanto si privilegiano mezzi digitali, animali domestici, contatti virtuali.

Bisogno che non si esaurisce nella previsione dell’art. 315 bis comma 2 cod. civ. : “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”.

L’enunciazione dell’art. 2, tra cui la sottolineatura dell’aggettivo “sua/e” per tre volte, risulta essere più incisiva e definita dell’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

“«Mio padre si ubriaca sempre perché è disoccupato, la mia mamma non ha soldi e mi hanno messo dentro un istituto. L’unica creatura che mi vuole bene è un pesce rosso che tengo dentro un vasetto sempre vicino a me, anche quando dormo la notte. La direttrice mi ha detto che il pesce non lo posso più tenere e allora di notte dormo con il vasetto del pesce legato alla mano, perché ho paura di svegliarmi e non trovarlo più. Se mi portano via il pesce, non ho più nessuno che mi vuole bene», ha scritto un bambino di otto anni” (da “L’amicizia” dello scrittore Bruno Ferrero).

Le esigenze dei bambini sono diverse da quelle degli adulti. I bambini hanno bisogno di qualcuno che voglia loro veramente bene e che voglia veramente il loro bene. Hanno bisogno di vita animata e palpitante (biofilia) e non di cose (necrofilia), di valori e non di oggetti di valore, di relazioni esclusive ma non escludenti. Perché “[…] il fanciullo ha bisogno di convenienti rapporti umani” e […] di non essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori” (dalla lettura congiunta degli artt. 2 e 3 della Carta).

L’incipit dell’art. 3 della Carta: “Nella casa, per realizzare i migliori rapporti umani, occorre: preparare i genitori ad una responsabile azione educativa”.

“Quando le urla provengono dal papà e dalla mamma, i figli avvertono inevitabilmente una sensazione di pericolo – sostiene il pedagogista Daniel Novara -. Sentono che l’adulto sta perdendo il controllo della situazione. E non solo: ne avvertono la debolezza, la fatica a mantenere la tranquillità, pur nella pienezza delle funzioni psicologiche adulte. Queste sensazioni inducono facilmente nei bambini un senso di mortificazione che spegne la possibilità di cogliere gli altri punti di vista nella situazione, di capire qualcosa in più di quanto sta accadendo, di vivere meglio le esperienze della vita, in particolare quelle di difficoltà e disagio relazionale”.

Il bambino deve svilupparsi e non avvilupparsi in paure, ansie, aggressività o altre forme di disagio.

Continuando la lettura dell’art. 3 della Carta: “Nella casa, per realizzare i migliori rapporti umani, occorre: preparare i genitori ad una responsabile azione educativa; offrire appositi ed attrezzati locali, balconi, terrazzi, giardini, cortili al fine di dare al fanciullo la possibilità di esplicare le sue fondamentali esigenze di movimento, di gioco, di lavoro, di studio, in forma individuale e di gruppo”.

Il bambino deve essere educato a vivere in maniera piena ed armoniosa ogni dimensione spaziale, anche psichica e intrapsichica, come avverte lo psicoterapeuta Alberto Pellai: “A volte i nostri figli tendono a chiudersi in amicizie troppo esclusive, in cui, invece che trovarsi, si perdono.

Lo racconta molto bene il romanzo Ellissi (Bompiani): due amiche adolescenti sono così fuse tra loro da intraprendere insieme una guerra contro il proprio corpo. Salvarsi, per loro, significherà slegarsi da un rapporto di dipendenza reciproca.

Educare i nostri figli a stare in relazione con gli altri senza esserne manipolati è un insegnamento fondamentale da cominciare già in età precoce”.

L’art. 3 della Carta continua: “[…] in sostanza occorre che la famiglia si renda conto della autonomia del fanciullo e carattere decisivo che ha per il suo sviluppo e fin dai primi mesi di vita, il fatto di non essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori”.

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, analizza: “I piccoli da 3 a 5 anni sono uno straordinario concentrato di scoperte, curiosità e intuizioni.

Ma tanta saggezza non è sempre farina del loro sacco.

Per avere figli straordinari bisogna essere genitori straordinari”. Straordinario significa “fuori dall’ordinario”. I genitori devono uscire dal loro ordinario, dall’ordinarietà degli altri, da quella imposta da mode, pubblicità, manuali o altro, devono far uscire i figli dall’ordine della monotonia, della pigrizia, dell’isolamento davanti a tablet o altri congegni.

Il bioeticista Cattorini soggiunge: “Questa è, infatti, l’etica della generazione: diciamo di sì a una promessa fascinosa e disorientante. Diventiamo poco alla volta padri e madri, anche quando il figlio reale tarda a venire, se apriamo dentro di noi uno spazio concavo, accogliente, in cui possa dimorare qualcuno cui giuriamo sin d’ora una prossimità senza riserve, chiunque egli sia, dovunque ci porterà”.

Non sono i figli che devono seguire i genitori, ma il contrario (come quando si insegna loro a camminare), come si evince dall’art. 3 della Carta nella cui seconda parte si legge che “[…] in sostanza occorre che la famiglia si renda conto della autonomia del fanciullo e carattere decisivo che ha per il suo sviluppo e fin dai primi mesi di vita, il fatto di non essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori” e dalla nuova formulazione dell’art. 147 cod. civ., come novellato dal decreto legislativo 154/2013: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis”.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro puntualizza: “Il processo di maturazione si svolge per tappe nel corso delle quali acquisiamo maturità differenti. E il percorso ha tempi diversi. Non tutti, infatti, siamo uguali in questo cammino. […] Dobbiamo saper rispettare le tappe di maturazione dei nostri figli: questo li renderà più forti e capaci di accettare eventuali fallimenti”.

I figli hanno diritto al tempo, il loro tempo, per cui i genitori devono prestare molta attenzione a tutte le scelte che fanno presumendo il bene dei figli, come l’anticipo scolastico sin dalla scuola dell’infanzia o iscrizioni a intense attività pomeridiane.

Tra i diritti naturali del bambino (decalogo elaborato da Gianfranco Zavalloni) al primo posto c’è il diritto all’ozio.

Scaparro prosegue dicendo: “Brutta cosa la fretta quando non è giustificata dalle circostanze o da qualche grande o piccola situazione di emergenza. Dovremmo ricordarcelo quando facciamo la nostra parte nel dare una mano nella crescita di figli, nipoti e allievi. «Dare una mano» non significa, dopo i primi tre anni di vita, sostituirci in tutto e per tutto a loro, non dare loro spazi crescenti di autonomia e, soprattutto, non rispettare i loro tempi di maturazione. Tempi che sono diversi da bambino e bambino. Capita che i genitori, talvolta in buona fede ma non di rado per soddisfare le proprie aspettative e per il timore che i figli, considerati più maturi dei coetanei, partano in ritardo dai blocchi di partenza, accelerino indebitamente la loro crescita”.

I genitori non devono soddisfare, attraverso i figli, le proprie aspettative ed esigenze, i desideri e progetti o seguire le mode o le tendenze pediatriche e psicologiche, anche perché i figli non sono la continuazione della vita dei genitori, ma la continuazione della genìa e della vita in generale.

Il pedagogista Novara conferma: “Meglio non fare muro contro i figli, non è una lotta di chi è più forte o di chi vince, i bambini fanno i bambini. A volte basta distrarli spostando la loro attenzione su altri giochi o su qualcosa che possa interessarli. I bambini sono pieni di pensiero magico e, sfruttando questa caratteristica, possiamo gestirli senza dover per forza urlare e perdere il controllo”. I bambini sono bambini e devono fare i bambini e gli adulti devono essere consapevoli di ciò e saper gestire le situazioni in maniera adeguata e responsabile da adulti.

Ancora D. Novara: “I bei tempi andati – un ceffone e via – non furono in realtà così belli e non è proprio il caso di averne nostalgia. Si tratta di entrare in un altro capitolo della millenaria storia del rapporto genitori-figli. Chiamo questo nuovo inizio «gestione dei conflitti» e riguarda la capacità di educare la naturale immaturità dei bambini e dei ragazzi senza farsi travolgere dalle emozioni. Tutti i bambini danno versioni personali dei fatti e tutti gli adolescenti vogliono schiodarsi dal controllo dei genitori. Sembra che lo facciano apposta per farci tribolare, in realtà vogliono solo crescere. Sta a noi aiutarli a farlo il meglio possibile”. È nella condizione naturale dei figli proiettarsi verso l’autonomia dai genitori, sin dai primi calci nel grembo materno.

Importante l’art. 6 della Carta che, in parte, recita: “I fanciulli, […] ammalati, devono poter godere di ogni assistenza”.

Lo psicoterapeuta Pellai, essendo anche medico, osserva acutamente: “[…] il bambino ha un corpo, un cuore e una mente e tutte e tre queste sue dimensioni sono in gioco, spesso in modo drammatico, nel corso di una malattia, specie se grave. Il corpo sperimenta il dolore, la fatica di trovarsi imprigionato in un letto, spesso ancorato ad aghi e fili che lo tengono in vita o che ne determinano l’immobilità. A volte su quel corpo si effettuano esami invasivi e dolorosi. E allora, nella malattia del bambino, è giusto dare valore prima di tutto alla verità del corpo. I clinici più competenti sanno che spiegare al bambino ciò che gli succederà, in ogni momento e in ogni fase, è il miglior modo per ottenerne la collaborazione terapeutica. Sanno che il dolore, quando ci sarà, non va negato né sottovalutato. Dire la verità al bambino, tutta, con le parole giuste, con uno sguardo che spera, seppur consapevole della tempesta da attraversare, permette al bambino di sentirsi soggetto e non oggetto delle cure”. Ogni bambino può trovarsi nella condizione di “ammalato”, in un cattivo stato (da un fallimento scolastico alla crisi di coppia dei genitori), e ha bisogno di sentirsi dire la verità, tutta, con le parole giuste, con uno sguardo che spera, seppur consapevole della tempesta da attraversare, che permetta al bambino di sentirsi soggetto e non oggetto delle cure.

Ogni bambino ha bisogno di assistenza, nel senso di qualcuno che gli stia accanto, che sia presente, che si trattenga con lui (tutti significati che si ricavano dall’etimologia di “assistere”), che gli infonda sicurezza, che gli trasmetta fiducia, che contribuisca alla costruzione di una giusta stima di sé (e non disistima o, come accade sempre più spesso, iperstima), che sia punto di riferimento cui poter tornare, che non si sostituisca a lui, che non gli stia addosso, che non lo accontenti in tutto perché è più facile così, che non si giustifichi con “importante è la qualità del tempo trascorso insieme”. I bambini non devono essere resi “infermi”, letteralmente “non fermi, non stabili”. Per questo il legislatore ha previsto, negli artt. 147 e 315 bis cod. civ., che devono essere assistiti “moralmente”.

La Carta offre pietre miliari per la legislazione scolastica e minorile dei tempi recenti e prossimi con la sua terminologia accurata, l’aggettivazione dettagliata ed espressioni come “effettiva efficienza formativa” (art. 4), “difesi dai pericoli del traffico e della vita intensa” (art. 5), “sviluppo, in senso moderno, della società italiana” (art. 8), locuzioni che non compaiono in tale formulazione in altri testi normativi.

La Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro rimane attuale nel suo seppur breve articolato, otto articoli, e soprattutto per il binomio gioco e lavoro, perché è urgente che i bambini sappiano giocare (sporcando e sporcandosi, cadendo e rialzandosi, toccando e sperimentando, procurandosi taglietti, graffi e lividi, fermandosi e annoiandosi, perché la vita concreta è questo e di più), possano giocare tra di loro e con gli adulti referenti, imparino a giocare per essere in grado, poi, di mettersi in gioco, di giocare nella vita, di vivere giocosamente e non di giocarsi la vita (sino al 2017 il suicidio giovanile è risultato la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali) o di provare “a giocare con il fuoco” cadendo in forme di dipendenza, tra cui la ludopatia, o diventando personalità borderline.

Dall’infanzia all’età adulta facendo del gioco e del lavoro quotidiane “ludoterapia” e “ergoterapia” e non solo nei casi patologici: da una vita di gioco al lavoro della vita.