Vent’anni dopo

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Vent’anni dopo

di Stefano Stefanel

Nel 2019 cadono due ventennali: quello del D.P.R. n° 275 dell’8 marzo 1999 e quello dell’avvio dell’autonomia sperimentale del 1° settembre 1999. Quando si ha a che fare con qualcosa che dura da vent’anni diventa logico e normale cercare di tirare le somme e di vederne i pro e i contro. Anche perché l’autonomia scolastica dal 2001 è entrata in Costituzione, anche se in quella parte di Costituzione che il mondo della scuola stenta a riconoscere come facente realmente parte della “Costituzione più bella del mondo” (su cui, però, si stanno addensando molti seri dubbi). Il recente dibattito sulla “regionalizzazione” è partito però, purtroppo, dall’ideologia e non dalla Costituzione stessa e dunque non pare portare a niente di buono, perché la Costituzione andrebbe attuata al di là delle ideologie. Poiché i cittadini con il referendum hanno bocciato l’idea di eliminare la legislazione concorrente di stato e regioni, a questo punto sull’istruzione diventerebbe necessario intervenire e quindi attuare la regionalizzazione – secondo il dettato costituzionale – ma su base culturale e amministrativa, non ideologica.
Credo, comunque, che non sarà possibile ragionare in maniera scientifica durante questi anniversari, visto che le “tifoserie” anti autonomia sono molto agguerrite e quelle filo autonomia molto perplesse. Il disegno dell’autonomia scolastica nasce dalla visione della scuola di Luigi Berlinguer, che riteneva logico legare il sistema scolastico nazionale alle scuole e non al ministero, e di Raffaele Iosa, che ha pensato a creare le modalità per costruire l’offerta formativa non più dentro i “programmi ministeriali”, ma dentro ad un Piano dell’Offerta Formativa territorialmente e culturalmente situato. Però Berlinguer è stato estromesso anzitempo dal Ministero soprattutto per opera dei sindacati e degli insegnanti, attraverso la causa “scatenante” del così detto “concorsone”, che voleva introdurre il merito in una parte della retribuzione accessoria dei docenti. Le riforme che si sono succedute in applicazione dell’autonomia scolastica sono tutte state fortemente ostacolate dal mondo della scuola e quindi applicate per niente o solo in parte: dal “riordino dei cicli” di Tullio De Mauro con l’eliminazione della scuola media alla legge 53 del 2003 di Letizia Moratti con il Portfolio, le prime Indicazioni Nazionali, le Unità di Apprendimento, il docente tutor, le ore opzionali; dalla Riforma Gelmini del secondo ciclo con l’eliminazione del mare confuso delle sperimentazioni eterne fino alla legge 107 del 2015 con la “chiamata diretta”, il bonus premiante il merito, gli ambiti territoriali, il PTOF, la valutazione dei dirigenti, l’alternanza scuola lavoro nei licei. Queste “riforme incompiute” hanno creato molto movimento e molti cambiamenti, ma non hanno permesso di verificare i loro effetti, perché spesso sono state spazzate via in un attimo: il riordino dei cicli è stato eliminato con un comma della legge 53; la stessa legge 53 (Riforma Moratti) è stata disapplicata – credo sia stato il primo caso di una legge modificata da una nota ministeriale – attraverso il “famoso” cacciavite di Fioroni. La legge 107 viene oggi smantellata con qualche difficoltà dall’attuale Governo con l’appoggio dei sindacati, anche perché il Governo ha promesso che la smonterà pezzo per pezzo, perché non pare avere il coraggio di smontarla con un colpo solo.
E’ possibile in questo quadro dire com’è andata? Direi proprio di no, perché i cambiamenti, soprattutto se sistematici, hanno bisogno di molti anni per sedimentarsi: si possono citare i casi della Spagna e della Finlandia, senza entrare tanto nel dettaglio, dove le riforme sono andate gradualmente a regime in una decina d’anni. Il mondo della scuola, ma anche l’opinione pubblica quando si occupa di scuola, non vuole le riforme e si compatta quasi solo attorno ai “no”, perché non c’è alcun cambiamento che viene accettato e sperimentato senza freni ideologici. Anche l’estremista LIP (Legge di Iniziativa Popolare) è stata sonoramente bocciata, traendo in inganno i suoi estensori che ancora una volta hanno scambiato la compattezza del mondo della scuola per i “no” con una compattezza da trasferire a una legge propositiva, che aveva come scopo il ripristino della scuola degli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.
Una certa curiosità intellettuale potrebbe nascere nel valutare se l’autonomia scolastica ha migliorato o peggiorato la scuola italiana, partendo dal giudizio sulla scuola post 68 sedimentatasi negli Anni 70 e poi diventata stabile negli Anni 80 e 90 con i decreti delegati della partecipazione, la riforma della scuola media e della scuola elementare e la “marmorea” conferma dell’impianto gentiliano della scuola superiore, lasciata al suo destino attraverso un “corpo” stabile e statico attorno a cui hanno cominciato a ruotare un paio di centinaia di sperimentazioni diventate “quasi ordinamentali”. E’ chiaro che, non essendoci controprova, si può dire tutto e il suo contrario, ma cercando perlomeno di indicare qualche “traccia”, dato che le “strade maestre” sono state via via tutte interrotte.
Chi ha vissuto – come me – la scuola degli Anni Sessanta e Settanta da studente e quella degli Anni Ottanta e Novanta da docente si è scontrato quotidianamente con la necessità di modificare qualcosa, di sperimentare, di uscire dal sistema delle microscuole diretta da Provveditorati asfittici e conservatori. I cambiamenti però venivano avanti molto piano, quasi più per mano di singoli docenti, di singoli gruppi di docenti, di consigli di classe, di scuole, di direttori didattici con una grande visione come Cinzia Mion o di ispettori che non stavano al loto posto come Giancarlo Cerini o Franco De Anna. C’era poi sempre quello spettro del post 68, che in qualche modo andava a condizionare un cambiamento che era richiesto come molto forte, ma che poi procedeva con la grande lentezza propria di tutti i sistemi centralizzati.
Nel periodo della grande trasformazione sociale dovuta alla caduta del Muro di Berlino e alla crisi del sistema della rappresentanza partitica italiana degli Anni 90 sono cominciati ad affiorare i dati sul nostro sistema dell’istruzione con rilevazioni internazionali che ci collocavano inesorabilmente molto in basso. Il risveglio per molti è stato traumatico, anche se la maggioranza (dei docenti, ma anche dei cittadini) quei dati non li ha mai presi in seria considerazione. La percezione dell’immobilismo della scuola superiore e dell’aumento della disoccupazione giovanile sia diplomata, sia laureata, ha fatto accendere l’attenzione su quel mondo immobile pensato da Gentile e vissuto in forma ostentata dalla gran parte delle scuole secondarie italiane. Era buona la scuola degli Anni 80 e 90? Probabilmente sì. Ha dato buoni risultati? Certamente no. E’ dentro questo controverso punto che nasce la necessità di intervenire sul sistema e lo si fa prima con la Bassanini-uno, creando l’autonomia scolastica e la funzione dirigenziale (art. 21 della legge delega n° 59 del 15 marzo 1997), poi con il DPR 275 attraverso cui Berlinguer ha ritenuto di mettere in moto un grande processo d’innovazione e invece ha messo in moto un mastodontico processo di conservazione. Lo “scontro” tra Miur e scuole sta ancora tutto qui: il Ministero è “innovatore”, le Scuole sono “conservatrici”. La storia della legge 107 è scolpita in questo passaggio mai affrontato seriamente: un Governo, con un Primo Ministro molto forte e con Ministri dell’Istruzione deboli fino all’inesistente, ha prodotto il corto circuito tra innovazioni che volevano emancipare il sistema e il sistema che si è rifugiato dai sindacati per farsi difendere dalle innovazioni. Tutti a parole sono innovatori, ma avendo ognuno in mente la “propria” perfetta innovazione, diventano fortemente conservatori verso le innovazioni proposte dagli altri. E comunque il processo di innovazione slegato dalle logica e dalle cogestioni sindacali si frange su un immediato consenso del mondo della scuola per l’onda favorevole all’eliminazione del processo innovativo.
L’autonomia scolastica ha però permesso alle scuole di comprendere se stesse, salvandole dalla deriva di un egualitarismo falso e che ha sempre penalizzato i più deboli (stranieri, ragazzi deboli e demotivati, ripetenti, ragazzi dispersi, ecc.): infatti oggi si constata che la scuola non è più un ascensore sociale e chi nasce ricco e in una famiglia colta fa una strada ben diversa da chi nasce povero e in una famiglia che non crede nella cultura. La scuola conservatrice ha sempre investito sulle teste “ben piene” ponendo però come proprio vessillo le “teste ben fatte”. La questione gira attorno a queste cose da vent’anni: si era illuso Berlinguer che, dicendo che i programmi non c’erano più e che le scuole avrebbero dovuto elaborare dei curricoli, aveva creduto e sperato che nella scuola sarebbero nati una grande officina e un grande dibattito culturale sulle modalità di questa grande innovazione. In realtà il dibattito culturale c’è stato e c’è, ma troppe scuole continuano ancora oggi ad insegnare programmi attraverso libri di testo standardizzati, che sono la negazione dell’idea curricolare. Studenti e famiglie stanno però da quella parte: diteci da che pagina a che pagina dobbiamo studiare per essere interrogati. Lo dicevo anch’io da studente (i miei genitori mai si sarebbero azzardati negli Anni Settanta ad interferire), mentre oggi la simbiosi studente/famiglia li fa parlare con una voce sola dentro uno “scontro generazionale” che è di tipo forse culinario o calcistico, ma che per il resto non è più scontro ma incontro, come ben insegnano i concerti di Vasco Rossi.
L’autonomia ci ha salvati? Io ne sono certo, ma sono anche convinto che tutte le prove che posso portare della mia certezza e tutti gli argomenti che ho qui esposto potrebbero essere immediatamente confutati da chi vuole dimostrare il contrario: siamo osservatori senza dati, siamo critici senza controprove. Però senza l’autonomia le scuole non si sarebbero prese neppure una parte di quella responsabilità che si stanno prendendo e non avrebbero trovato tempo neppure per fare quelle doverose rendicontazioni che facciamo oggi. Che vi sia però un atteggiamento non “autonomo” da parte delle scuole (e di molti dirigenti) lo si vede nell’attenzione maniacale che viene prestata all’aggressione contabile dei revisori dei conti (privi di poteri) e alla disattenzione di troppi verso il Sistema Nazionale di Valutazione proposto da un Miur che invece i poteri ce li avrebbe. In questo senso si situano i sindacati, che vogliono cogestire l’autonomia scolastica slegandola dai suoi soggetti principali (dirigente scolastico e collegio docenti). In questo senso va anche letta la questione degli ATA e la loro forza dentro la scuola, con un protagonismo che mai c’è nelle leggi e invece c’è sempre nei contratti.
Leggendo però la storia dell’autonomia scolastica ci si imbatte nell’evoluzione (o per qualcuno nell’involuzione) di una figura molto marginale nella scuola degli Anni Settanta e Ottanta e diventata improvvisamente centrale: il dirigente scolastico. Al di là delle lamentele della categoria e delle lamentele dei docenti e degli ata sulla categoria, rimane il dato di fatto che nella scuola dell’autonomia si “deve passare” dal dirigente scolastico. Questa figura crea una sorta di immedesimazione tra chi dirige la scuola e la direzione che questa prende: questo anche perché la forma professionale e collegiale di gestione di una scuola è il Collegio docenti, non il Consiglio d’Istituto. Il Collegio docenti deve però agire per commissioni, documenti preparatori, gruppi di lavoro, cioè attraverso un decentramento progettuale che il vecchio sistema centralizzato non richiedeva. Le circolari ministeriali hanno molta meno forza delle delibere del Collegio docenti, soprattutto laddove queste vanno ad incidere, attraverso l’autonomia scolastica, nel corpo vivo dell’offerta formativa. Ma proprio perché il Collegio docenti deve agire come un piccolo parlamento in cui “in aula” arriva solo la parte finale di un lavoro che è di predisposizione, il ruolo del dirigente scolastico è centrale anche quando sembra non lo sia. Se il dirigente scolastico non si occupa di didattica (come molti colleghi fanno) la scuola prende una direzione, ma se il dirigente scolastico si occupa della didattica tutta la progettazione curricolare passa attraverso di lui, visto come soggetto ordinatore e facilitatore.
L’autonomia ha complicato il rapporto tra scuole e potere centrale e ha destabilizzato il rapporto con i sindacati, che si trovano a lavorare su due livelli non sempre omogenei, anche per la mole enorme di contratti d’istituto che ogni anno si firmano (direi a occhio e croce intorno ai 50.000) e per la varietà di situazioni non più riconducibili a schemi fissi. L’autonomia ha costretto le scuole dentro una logica comunicativa e rendicontativa, l’unica in grado di farle resistere al cambiamento del mondo che ci è vicino. Inoltre il legame tra l’autonomia scolastica e il contesto di riferimento (enti locali, soggetti del mondo lavoro, università, ecc.) ha creato legami molto forti dentro una struttura, come quella scolastica, che vive di legami deboli. L’ancoraggio delle scuole alla comunità locale e non al sistema centrale le ha rese più forti dentro un quadro di riferimento sempre più confuso: ogni scuola ha i suoi punti fermi, che sono stabiliti a livello locale e non vengono influenzati più di tanto dal raffronto nazionale.
Il quadro nazionale si è spezzato? Certamente sì e i sindacati lo sanno bene perché i Contratti Collettivi Nazionali sono diventati sempre di più una vera “impresa”. Dire però che i sindacati imbrigliano l’autonomia delle scuole è dire una cosa profondamente inesatta: i sindacati rappresentano quel desiderio di egualitarismo e uniformità che permane anche davanti ai dati dell’oggettività che dicono che quel tipo di mondo non esiste più. Infatti il “conflitto” interno alle scuole sfocia sempre in accordi, senza grandi clamori se non in pochi casi eclatanti, segno che i punti di equilibrio dentro un’autonomia funzionale si trovano sempre. E se ci sono evidenti discrasie tra le necessità dell’utenza (ad esempio: docenti in classe dal primo giorno di scuola, supplenti in classe dalla prima ora di assenza del titolare, ecc.) e le protezioni dei lavoratori (ad esempio: trasferimenti a domanda del docente, scorrimento delle graduatorie con possibilità di rinuncia) queste vengono facilmente assorbite dentro un rapporto diretto tra la scuola, i suoi problemi, l’opinione pubblica di riferimento e la tolleranza generale anche quando il sistema traballa.
Quindi vent’anni dopo possiamo dire che l’autonomia sta salvando la scuola da una globalizzazione confusa e da un riformismo caotico? Forse questo è un passo un po’ troppo lungo. Diciamo che l’autonomia ci fa pensare, ma dentro una scuola che va avanti per storie virtuose e una normativa che va avanti solo per strappi. La grande pazienza delle scuole convive con l’impazienza del sistema di cambiare e dei sindacati di controllare. Ma se ciò avviene senza grandi scosse è perché l’autonomia scolastica protegge tutti, in un mondo che globalizzandosi si è frantumato.