Alla deriva del sapere

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Alla deriva del sapere

di Giovanni Fioravanti

Il sapere non sta attraversando un buon momento. Gli apprendisti stregoni si moltiplica-no. Quasi che il sapere anziché renderci liberi ci trasformi in vittime della sua tirannia.

Che il momento non sia favorevole al sapere, ci aveva già avvertito Tom Nichols con il suo “La conoscenza e i suoi nemici”, riecheggiando “La società aperta e i suoi nemici” di Karl Popper. Perché ciò a cui si guarda con sospetto e con resistenza sono sempre i pas-si che si fanno verso il cambiamento, verso il futuro che ti porta via quello che avevi prima.

È lo stesso meccanismo del sapere che ti priva dell’ignoranza e, a volte, ti accorgi che sarebbe stato molto più comodo non sapere.

Non possiamo più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa, il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra. Platone ci ha fregato.

Diffidare del sapere ha fatto sempre bene alla narrazione umana che non avrebbe potuto progredire senza interrogarsi del proprio sapere, ma a sapere bisogna contrapporre sape-re e non congetture.

È la società chiusa che nega che il sapere accumulato dalla tradizione possa essere falsificato. O si possa anche solo pensare di metterlo in questione, sono le sette, le chiese e le confraternite, che non ammettono altro al di fuori di sé. Come il populismo e il sovrani-smo, propri delle società chiuse, nemiche delle società aperte.

Ma se possiamo dubitare e mettere in discussione la scienza, lo dobbiamo alla ragione cartesiana e illuminista, alla fiducia nella razionalità dell’uomo che ha portato la società occidentale a diventare per prima una società aperta, una società che ha reso libere le facoltà critiche della persona.

Sono le nostre capacità di usare la ragione che ci hanno consentito di progredire metten-do in discussione i nostri saperi. Ma la ragione dell’uomo ha bisogno di fatti, non di opi-nioni, della ricerca e della scoperta, per riprendere altre strade ancora verso la ricerca e la scoperta di altri saperi, non di sentenze e tanto meno di pregiudizi.

Quando veniamo al mondo compiamo l’ingresso nella cultura del nostro tempo per parte-cipare alla sua narrazione e diventarne a nostra volta gli autori. È a scuola che appren-diamo a leggerne e a scriverne le pagine. Per questo nessuno può appropriarsi della scuola, perché quella narrazione appartiene a tutta l’umanità che l’ha composta e che continua a comporla dai vari luoghi del pianeta.

Quando si teme il sapere, i primi sintomi vengono dalle scuole. È la narrazione collettiva a correre i maggiori pericoli.

I sacerdoti della società chiusa si muovono con le loro liturgie e i loro anatemi. La nuova eresia che non deve entrare tra la narrazione dei saperi delle nostre scuole è oggi la teoria gender.

Il ministro gialloverde, titolare del Miur, ha decretato con circolare a tutte le istituzioni sco-lastiche che di “gender” nelle scuole non si deve parlare senza il consenso delle famiglie, come non è possibile realizzare altri progetti, al di fuori delle discipline canoniche, se non c’è il benestare delle famiglie. Il diritto al sapere, dunque, appaltato e sequestrato dalle famiglie.

La scuola non più il luogo della narrazione collettiva, il luogo dell’ingresso nella cultura, il luogo della negoziazione dei significati, ma luogo di sudditanza e di manipolazione, as-servito a un culto della famiglia reazionario, conservatore e ignorante. La scuola come luogo della democrazia e dei saperi contingentati.

Il luogo dell’ipocrisia imposta come diritto dei genitori di tenere in ostaggio le menti dei fi-gli, nel luogo dove i saperi devono essere aperti, nel luogo in cui ricevere le risposte alle domande, che non possono certo celare i loro interrogativi solo perché i genitori non vogliono.

La paura del sapere striscia in modo allarmante e soffia alle porte e alle finestre delle no-stre scuole. Una riforma non detta si fa strada e da tempo attendeva il suo apprendista stregone. Alcune parole già iniziano a sguizzare nell’aria per familiarizzare con le orec-chie delle persone. E allora ecco la “regionalizzazione”, l’apprendimento per “argomenti” anziché per “discipline”. Tutto un repertorio con l’intento non dichiarato di ridurre le scuo-le a misura della propria società chiusa, del no ai saperi che non siano quelli delle pro-prie tradizioni, delle proprie certezze e differenze.

Non più la scuola pluriculturale per una società aperta. Ma una scuola sovranista, mono-culturale, per una società chiusa.
Non più la scuola della grande narrazione comune a tutta l’umanità, per questo comunità di destino, per questo comunità dell’incontro con l’altro. Il luogo in cui la narrazione dei saperi consente a generazioni di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi di ricer-care la risposta a Chi sono io? Chi sei tu?

Una scuola che ora, in nome delle regionalizzazione, in realtà aspirerebbe a difendersi dai corpi estranei, che siano saperi nuovi e vecchi, docenti o discenti di altri terre geogra-fiche e culturali.
La deriva dei saperi comporta la deriva della cultura e delle conquiste democratiche, moti-vo per cui i saperi e i loro luoghi sono i primi ad essere presi di mira dal populismo e dal sovranismo delle società chiuse. Restare vigili è il nostro dovere.