G. Poli Disanto, E nei tarocchi

Nell’interiorità della donna che legge la poesia nelle confuse carte delle sue emozioni

 di Nicola De Nitti

 «Il testo che ti mandai tempo addietro non era completo, ma io questo, allora, non lo sapevo. L’ispirazione non aveva smesso di guidarmi e l’energia che mi portavo dentro ha continuato a operare fino a quando non me ne sono liberata. Accade così tutte le volte…»[1]

Nella ricerca continua  della profondità della sua anima, condotta «con la pazienza e l’umiltà e con un amore risoluto e perfettissimo»[2], Giulia Poli Disanto, “Musa Inquieta”, si rifugia nel canto e nella fede per dare espressione al suo essere. Ricchezza di riferimenti autobiografici, mitologici, religiosi, uniti da uno stile raffinatamente dolce, rendono la raccolta di poesie E nei tarocchi di una liricità che con discrezione porta a riflettere sull’immensità dell’anima e sul bisogno dell’uomo moderno, essere sensibile, soggiacente a mille incertezze di trovare «rifugio nell’impalpabile»[3]. La riflessione dell’Autrice sulla genesi dell’ispirazione poetica porta a considerare gli aspetti catartici della poesia, sublimazione del dolore in canto.

E nei tarocchi, opera dal titolo malizioso ed evocativo, costruita come percorso nell’interiorità dell’autrice alla ricerca della sua “pietra filosofale”, spinge ad un’analisi profonda dei testi, compiuta nell’intimità, per poter fare dell’esperienza del singolo un insegnamento ed una viva esortazione alla riflessione. Non nuova alla poesia, l’Autrice ritorna al suo pubblico, coinvolgendolo in una spirale di emozioni ravvivate da dolcezza ed intensa vena creativa.

La terzina dantesca che apre l’opera si fa portatrice perfetta dell’invito alla meditazione che ripercorre l’intera opera. Il raffinato sonetto iniziale, in ricordo del padre scomparso, ci introduce nel regno delle ombre e della metafisica che incessantemente l’autrice si propone di esplorare. Cielo e Terra si congiungono in un momento di intensa liricità con giochi di colori ed immagini, attraverso sottili e dolci corrispondenze chiuse in un chiasmo che avvicina le stelle del cielo al colore azzurro degli occhi del genitore, del quale l’autrice conserva l’alito. Continuità e fecondità sono concetti che Giulia Poli Disanto rende immagini nella scrittura. L’evocazione di Melpomene, musa della tragedia, apre le porte al mito: il simbolismo mischia le carte e conferisce drammaticità alle parole nelle quali echi pagani e cristianesimo, quotidianità e desiderio di infinito («potrò mai volare?», Prologo) sostanziano la materia su cui l’Autrice forgia i suoi lievi componimenti.

Nella prima silloge, Regina di Cuori, stupisce vedere la gioia di vivere fondersi a tenera e malinconica meditazione, sogni e passioni rischiarare i versi come scintille. Sembra di poter cogliere nell’intera sezione l’eco dello «sguardo oltre i confini» (Il Leone) con il quale il poeta, ricreatore del Creato, raccoglie i sedimenti del passato per riproiettarsi nel prossimo futuro. L’appartenenza a Dio, l’affetto materno, la costante ricerca dell’io sfociano in immagini rarefatte nella poesia Regina di Cuori: «Trepide le parole / fermano l’anima / e nella frattura di un idillio / si consuma la ragione». Il percorso nella profondità dell’anima e lo sguardo sulle carte danno forma a considerazioni sulla vita e sulla poesia «tacciono i tarocchi e la crisalide Angelo muto / prende il volo / nell’anello dei cigni» (L’anello dei cigni), pervase da sentimenti diversificati che si ricompongono in un’armonia di insieme («Una carta da giuoco / che vince e poi perde / Ma tu sei per me la regina / Regina di cuori»). La Regina di cuori, che fornisce un’immagine concreta all’anima, alla poesia stessa, avvicina ad una coscienza della creatività e dell’arte in ogni sua forma. Par di sentire in sottofondo la tenue musicalità dei versi di Anna Achamatova: «Io ho appreso a vivere con semplicità, con saggezza, / a guardare il cielo e a pregare Iddio […] io compongo versi festevioli / sulla vita caduca, caduca e bellissima» (Io ho appreso a vivere).

Nella seconda stazione,  Profezie (il giudizio dell’arconte), aperta dal Salmo 97, si consolida il credo nel divino. Si coglie lo sforzo per comporre parole che non siano pensiero puro, ma «si forgino nel cuore e cantino le lodi al signore»[4]. Nella lirica Corrispondenze, emerge il manifesto poetico della silloge, nella quale il conflitto interiore si configura in immagini di angeli e di serpenti, simboli dell’eterna lotta fra bene e male. L’interrogativo sul senso della vita («e se soccombere / dovessi? / doloroso sarebbe/ il pianto della corolla / che il capo reclina») lascia trasparire la visione della femminilità come motivo di speranza («così io esposta ai venti/ sarò madre di altre rime» (Corrispondenze). Sono proprio fede ed audacia a disegnare, infatti, il profilo dell’“uomo nuovo”, rinnovato dalla ragione mista al sentimento, che dovrà valorizzare il silenzio nel quale «si radica la pergamena».

Il contrasto fra fedeltà e ribellione, fra ragione e sentimenti, è modellato sull’antica filosofia degli Esseni,  i quali sostenevano che il corpo dell’uomo è il prodotto del lavoro incessante dell’anima. Le delusioni, le sofferenze, il puro dolore della poetessa si sciolgono nella forza iconografica di versi che ne rispecchiano  la fede : «è così che / ho deciso di vivere – i chiodi / nella carne ed il cuore nel giardino del re» (Libero canto d’amore). La tristezza appare sfumata, poiché è la creatività, la poesia, ad alleggerire il peso dell’esistenza: «sarà più leggero il giogo / se la mano s’intingerà d’inchiostro?» (Pelle d’Angelo). Tale interrogativo restituisce forza  alla poetessa.

Nella terza stazione – Stazioni (la linea di sangue) – si coglie immediatamente il riferimento alla Via Crucis. Il bisogno di un Salvatore, le riflessioni sulla sofferenza si condensano in quindici sestine, nelle quali Giulia Poli Disanto segue la linea di sangue percorsa da Cristo («ti seguo cantando il tuo dolore», III), «come Musa Inquieta lo accompagna sul Cranio», VI), raccogliendone il «testamento» («tormento trasuda il tuo volto / ma è per me / il tuo testamento», IV). In sangue, le orme, la realtà e il sogno, il silenzio e il perdono caratterizzano composizioni che presentano metafore e similitudini. L’immagine del Sepolcro e il grido di solitudine rafforzano il sentimento di accettazione del dolore.  Echi pagani si fondono ad una intensa riflessione sul “Calvario” in un lirismo che culmina nell’ultima stanza, la poesia più violenta dell’opera. La scrittura assurge a viaggio verso la conoscenza, il canto diventa il modo per accompagnare Cristo al Calvario: «Il lenzuolo – i chiodi / la corona di spine – la spugna / la scala – la frusta / La lancia – i trenta denari – il Calvario: / è tutto quello che il poeta ti offre» (XV). Sono condensati nell’ultimo verso i significati di una vita consacrata alla poesia ed alla ricerca del limite più profondo dell’anima. Nonostante la sofferenza ciò che emerge dalla lettura della silloge è un disegno di armonia, di profonda pace interiore, data da un’intensa comunicazione della poetessa con l’anima e con la divinità.

La quarta stazione – Il gallo cantò tre volte –, che ingloba alcuni dei testi esteticamente più belli dell’opera, ha il valore di una testimonianza della lotta del lirismo contro la ragione («cantare per vincere e morire / per morire e vincere / per restare qui / tra queste pagine bianche», Il canto di Dèbora), lotta nella quale la scrittrice è dilaniata («Si riflette nello specchio / il canto del gallo / per me che non seppi credere / per me che non seppi sperare / per me che persi nella vittoria», Il gallo cantò tre volte). Unicamente la dedizione ed il coraggio aprono le porte del futuro «tutto il resto è aria… polvere» (12 novembre 2003). La poesia che apre la raccolta immerge il lettore in un misticismo che esplode nel componimento Acclamazione, la “verità rivelata” della scrittrice («mi innamorai di lei / in un giorno d’estate / odorava di limoni e di zagare fiorite / con l’inchiostro che scorreva / sfrenato nelle vene»). Tale rivelazione passa lungo gli irti sentieri della gioia e della malinconia, della luce e dell’ombra, attraverso la lotta del bene contro il male («il serpente solleva nubi che si incollano sulla pelle», Il serpente) al culmine del quale la poetessa può finalmente discernere «nettare e fiori velenosi / questi versi nello stomaco» (Fiori Velenosi). Il grande anelito all’equilibrio («sono vento tra la folla / alla ricerca del divino / sulla terra maledetta», Sono vento), si concretizza nella definizione finale e realisticamente utopica del poeta, sognatore che cerca perle nel mare disseccato: «Sono il poeta che non ha seguaci / il poeta con una rosa in pugno / il prigioniero della rivoluzione» (Sono il poeta).

La quinta sezione – …e nei tarocchi (Tarrot: la strada reale della vita) – si dischiude al lettore con un elegiaco Epilogo, che richiama dolcemente, con sapienti aggettivazioni, immagini di morte, accompagnandole con tenui colori di speranza («Come ombra furtiva / segue le mie orme / per raccogliere infine / il mio caldo sospiro»). Il silenzio di un respiro avvolge i versi in un momento di crollo delle certezze («La speranza è tenace / e il grande sognatore / al poker d’assi affida la vittoria», Poker d’assi), in cui l’autrice si prefigura l’assenza delle persone care: «dimmi amica mia / come farò senza di lei». È soltanto nell’ultima lirica, che porta il nome del libro, che «Giulia ritrova Giulia». Il «Mito ritorna sul palco» segnando, negli ultimi versi, l’ascesa di quel bagliore di speranza che sempre abita l’animo del poeta.

E nei tarocchi fornisce, con compostezza e persuasione, attraverso un linguaggio limpido ma allusivo, perfetta espressione del gioco, del credo religioso, del mito, di una elegiaca melanconia che disegnano la riscoperta di sé al culmine di un viaggio esistenziale senza fine.

«La mia lettura dei fenomeni naturali è la stessa utilizzata dal poeta, che percepisce gli eventi attraverso i dati sensoriali e l’arte divinatoria Proprio come l’iconografia popolare vede nell’alchimista colui che è impegnato nella ricerca della pietra filosofale e nel tentativo di fabbricare l’oro, così io vedo nel poeta un uomo non comune che riesce a vedere oltre ed esprimere la verità attraverso l’alchimia delle parole.»[5]



[1] Giulia Poli Disanto, E nei tarocchi, Besa Editrice, Nardò, p. 9.

[2] Ibidem.

[3] Anna Santoliquido, Il gioco la grazia il dolore nella poesia di Giulia Poli Disanto, in Op. cit., p. 11.

[4] Anna Santoliquido, Il gioco la grazia il dolore nella poesia di Giulia Poli Disanto, in Op. cit., p. 13.

[5] Giulia Poli Disanto, Op. cit., p. 9.

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