Il regionalismo un fenomeno carsico

Il regionalismo un fenomeno carsico

di Gian Carlo Sacchi

E‘ come un fenomeno carsico, si protrae tra alti e bassi da quasi un ventennio: ora sembra aver subito un’improvvisa accelerazione. Si tratta di un dibattito che ha accompagnato la storia della nostra Costituzione ed in particolare la nascita delle regioni a statuto ordinario. Un rapporto, quello tra governo nazionale e regionale da sempre conflittuale che non ha avuto pace nemmeno con la riforma del titolo quinto della nostra carta fondamentale. I testi sono noti, ma per capire meglio l’evoluzione e ciò di cui ancora oggi stiamo discutendo è importante cogliere il clima politico e amministrativo che ha caratterizzato la fine del secolo scorso, culminata con la predetta revisione costituzionale. Era stata delineata da una maggioranza di centro sinistra e suffragata da un referendum popolare, ma la pressione di una destra che oscillava tra la secessione della padania e la privatizzazione dello stato da trasformare in azienda, avevano impensierito la politica e preoccupato la burocrazia ministeriale e i sindacati.
Tra le materie soggette a rivisitazione nelle attribuzioni istituzionali c’era l’istruzione, che conservava allo stato le norme generali ed i livelli essenziali delle prestazioni , devolveva a competenze concorrenti con le regioni tutto quanto riguardava la governance del sistema scolastico e la formazione professionale che, come in passato, rimaneva a queste ultime. Un cambiamento piuttosto significativo nell’intento di riorganizzare i poteri legislativi e gestionali, ma che rimase pressochè lettera morta, per evitare le suaccennate degenerazioni, facendo rinunciare allo stesso centrosinistra gran parte della sua cultura politica centrata sui governi locali, dimostrata attraverso numerosi provvedimenti sulla revisione degli enti territoriali ed il decentramento statale.
Una riforma appena abbozzata fu origine di un enorme contenzioso davanti alla Corte Costituzionale, ma il centralismo ebbe ancora la meglio e le regioni non insistettero più di tanto per paura che ad un eventuale passaggio di consegne comportasse un aggravio di costi a fronte di diminuzione di risorse dal parte dello stato stesso, anche se una proposta da parte di queste ultime ci fu (2008), purtroppo senza seguito da parte ministeriale. Di quel provvedimento viene però ripreso l’art. 116 che prevede la possibilità di attribuire alle regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, su iniziativa della regione interessata, nel rispetto dei principi di buona amministrazione, cioè con i conti in ordine, mediante una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta, previa un’intesa con lo stato centrale. Detta ulteriore autonomia potrà riguardare sia le materie concorrenti, e quindi anche l’istruzione, fatta salva quella delle istituzioni scolastiche, nel frattempo elevata a dignità costituzionale, nonché alcune di esclusiva competenza statale, come le norme generali sull’istruzione stessa, che si avvicinava alle regioni a statuto speciale.
In quest’ottica si tratterà di valorizzare il ruolo degli enti locali nella titolarità dell’esercizio delle funzioni amministrative a livello territoriale e di superare il finanziamento statale storico per arrivare alla definizione dei fabbisogni standard, da determinare con riferimento alla popolazione residente in quella regione, alle caratteristiche del territorio ed alla propria capacità fiscale. Senza un ulteriore aggravio della spesa pubblica, ma anzi con un fondo di solidarietà per quelle più in difficoltà (art. 119 della Costituzione), le regioni comparteciperanno alla gestione del gettito fiscale dello stato riutilizzando eventuali risparmi per il miglioramento dei servizi ed il soddisfacimento dei bisogni specifici. Un esempio è proposto dalla Lombardia dove la quota capitaria per ogni studente della formazione professionale regionale ammonta a 4.500 euro contro i 7.500 della scuola statale. Con il costo standard si potrà altresì discutere sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie.
Dopo il fallimento del referendum del 2016, nel quale le regioni venivano ridotte a puro organismo amministrativo decentrato, come strumenti di programmazione di “area vasta” al posto delle sopprimende province, tre di loro chiedevano al governo nazionale l’applicazione del predetto art. 116: due , Veneto e Lombardia, mediante referendum popolare, che si espresse positivamente e l’altra, l’Emilia Romagna, con un coinvolgimento territoriale unanime di soggetti pubblici, privati e associativi. Tutte e tre ottennero dal precedente esecutivo Gentiloni la firma di una preintesa che il gabinetto giallo-verde si è impegnato a trasformare in tante leggi. Nel frattempo con votazioni unanimi le assemblee legislative di Toscana, Marche e Umbria, Liguria, Piemonte, Lazio, hanno avanzato altrettante richieste.
Come si vede il clima sembra cambiato, da destra e da sinistra si converge sul regionalismo differenziato e in tutti c’è la consapevolezza che il Paese debba rimanere unito, entro i principi di sussidiarietà, leale collaborazione e solidarietà.
Se anche Sicilia e Sardegna pongono il problema dell’insularità, Campania, Basilicata e Puglia, hanno scritto lettere di intenti; forse si potrebbe pensare, anche se lo sforzo parlamentare si presenta arduo, che sia l’occasione per rivedere ab imis fundamentis il sistema di governo del Paese, attraverso un regionalismo differenziato di tutte le regioni, con il nostro Bundesrat.
L’autonomia è un percorso partito dalla gente, dice il ministro Stefani; Matteo Salvini è intenzionato ad inserire velocemente tali provvedimenti nell’agenda del Consiglio dei Ministri e Luigi Di Maio si pronuncia a favore di richieste provenienti da referendum popolari, così come pensa di appoggiarsi alle regioni anche per quanto riguarda il rilancio dei centri per l’impiego. Dall’altra parte, in modo più convinto che in passato la presidente dell’Umbria stimola il governo a credere pienamente nella capacità dei territori di pensare il proprio sviluppo e chiede una legislazione che esalti l’autonomia delle regioni.
Riorganizzare il sistema nazionale dal basso servirà a responsabilizzare maggiormente i cittadini e superare la disaffezione per la politica ?
LA SCUOLA REGIONALE ?
Ognuna delle regioni che ha elaborato una proposta avanzata di regionalismo differenziato ha inserito l’istruzione tra le materie di cui intenderebbe occuparsi. Un quadro piuttosto ampio: dalle norme generali al governo del personale, dagli istituti tecnici in collegamento con l’istruzione e formazione professionale, dalla programmazione della rete scolastica ai rapporti con l’università e il mondo del lavoro, dall’educazione degli adulti all’edilizia scolastica. Regioni che oggi lamentano il ritardo dello stato negli aspetti organizzativi garantiscono maggiore efficienza nelle nomine di dirigenti, docenti e altro personale. Perfino il ministro Bussetti non sarebbe contrario ad una scuola regionale, come nel Trentino- Alto Adige, compreso il passaggio degli operatori.
A questo punto come era logico aspettarsi centralismo e regionalismo tornano a combattersi all’insegna del miglioramento della qualità e garanzia dell’equità del sistema. Le forze politiche al governo appoggiano l’autonomia delle scuole e dei territori, mentre il PD che è sempre stato a favore delle autonomie locali si schiera dalla parte del sistema nazionale, insieme a parte del M5S. La Lega pensa a concorsi per docenti sulla base di fabbisogni regionali e ci sono regioni governate dal dentro-sinistra che hanno già avviato una procedura autonomista, che potrebbe guardare fino alla revisione degli attuali confini amministrativi.
Tutte quelle regioni che oggi rivendicano maggiore spazio istituzionale si schierano comunque a favore della difesa dell’unità nazionale del sistema e della coesione sociale; la secessione è dunque tramontata, sono rimasti i sindacati a difendere la contrattazione con il vertice ministeriale, forse perché è più gravoso sostenerne una per ogni regione, come peraltro l’esperienza trentina ci dimostra. Sarebbe bene invece avere uno spazio contrattuale integrato con la formazione professionale regionale, perchè le attuali differenze impediscono di dare stabilità e organicità all’intero comparto, che acquista un’importanza sempre maggiore sul piano dei rapporti con il mercato del lavoro.
Si può ancora discutere di uno stato giuridico statale del personale soprattutto direttivo e docente, ma non vi è dubbio che sia necessario passare ad una “dipendenza funzionale” dalle regioni, le quali potranno gestire gli organici con maggiore coerenza rispetto alla programmazione territoriale, fatti salvi i contratti collettivi e valorizzando maggiormente il ruolo degli enti locali e delle autonomie scolastiche.
Le preoccupazioni circa l’equità non sono state soddisfatte dal centralismo, se guardiamo agli scompensi sociali tra i diversi territori che hanno portato alla dispersione ed alle differenze negli apprendimenti, forse lo stato dei livelli essenziali delle prestazioni ed una maggiore autonomia regionale e locale potrà generare, anche in base ai costi standard (come avviene nella sanità), una sana competizione finalizzata al miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia del sistema stesso. Una ricerca del CENSIS (2018) evidenzia un regionalismo differenziato di fatto, ma un forte bisogno di rappresentanza dei territori e la necessità di una ridefinizione dei rapporti tra le regioni e lo stato centrale, per arrivare fino alla programmazione europea. Il riaccentramento istituzionale degli ultimi anni ha comportato una riduzione della partecipazione nel voto locale e la perdita di fiducia negli enti periferici. Le specificità dei territori italiani rimangono elevate e la disintermediazione non può funzionare per governare lo sviluppo.
Il decentramento politico dunque riflette valori e scelte di fondo che realizzano il principio democratico e che si possono già vedere in precedenti pronunciamenti di quelle regioni che sono più avanti nel nuovo processo legislativo. La tendenza del Veneto è quella di affermare i contenuti identitari come si evince dal protocollo d’intesa firmato recentemente con il MIUR “per lo sviluppo di competenze degli alunni in materia di storia e cultura del Veneto” (2018), che è possibile inserire nel curricolo scolastico utilizzando l’art. 8 del DPR 275/1999, quella più pragmatica della Lombardia che ai sensi della legge 53/2003 ha definito la quota regionale dei piani di studio mirata a sostenere le così dette competenze trasversali e di cittadinanza: elaborare un progetto di vita, agire comportamenti responsabili, interagire con più soggetti nell’ambito delle relazioni di vita, anche in lingue diverse, ecc., in aree tematiche che guardano allo sviluppo del pensiero critico, all’ambiente e sostenibilità, sicurezza, salute, ecc., in stretto raccordo con il tessuto sociale, culturale e produttivo. Tutto questo cercando di intervenire sugli standard nazionali dei percorsi formativi, senza aggiungere ulteriori contenuti (2009). L’Emilia Romagna con la sua legge 12/2003 “valorizza l’autonomia delle istituzioni scolastiche, quale garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e trasferisce alle stesse ogni competenze propria in materia di curricoli didattici”.