Quando il “giallo” è dell’anima
di Antonio Stanca
Recentemente la casa editrice Einaudi di Torino, nella serie “Numeri Primi”, ha ristampato un romanzo della scrittrice francese Fred Vargas, Prima di morire addio (pp. 196, € 13,00). La traduzione è di Margherita Botte. La Vargas, nata a Parigi nel 1957, lo scrisse quando aveva trentasette anni, nel 1994, e fu una delle sue prime opere narrative. Ora ha cinquantacinque anni, è ricercatrice di archeozoologia presso il Centro nazionale francese per le ricerche scientifiche (CNRS), è una studiosa del Medioevo, ha scritto opere scientifiche, racconti, sceneggiature per la televisione e soprattutto romanzi gialli. Ha raccolto alcuni di questi e alcuni racconti in opere uniche, le sue narrazioni sono tradotte in molte lingue ed in Italia è la Einaudi ad interessarsi della loro pubblicazione.
Sono stati i romanzi polizieschi a procurare notorietà alla Vargas poiché diversa dalla tradizionale è la loro maniera. Non c’è violenza in essi né sesso, non mostrano come eccezionali i casi dei quali narrano ma come propri della vita, della sua realtà. Di essa fanno parte le vicende rappresentate, ad essa appartengono insieme al crimine del quale si cercano i motivi ed i responsabili. Abile si mostra la Vargas nel creare una simile situazione, nel mantenerla fino alla fine. Non c’è dramma, non c’è tragedia in lei, solo vita che avviene, si svolge, che contiene anche il delitto. Nei suoi romanzi certi personaggi ritornano, ricompaiono, diventano figure ricorrenti, continuano, ripetono i loro modi di essere, pensare, fare. E’ la volontà di aderire alla vita, di fare di quelli delle opere i suoi casi, di trovarne la spiegazione nell’anima dei protagonisti a distinguere la Vargas nel contesto della tradizione letteraria di genere giallo.
Sono tutti elementi, aspetti che erano comparsi già all’inizio della sua attività di scrittrice e ne è prova il romanzo giallo Prima di morire addio. Qui la Vargas avvia un processo tanto esteso, tanto prolungato da sembrare di non volerlo mai ridurre né concludere. Fino alla fine si sa, si scopre, fino alla fine si capisce, si spiega, fino alla fine la vita si mostra.
Intorno ad una donna bellissima, Laura, alla sua “sovrana distrazione”, alla sua vita passata e presente, si muovono tante persone, vecchie e giovani, amate e odiate, colpevoli e innocenti, inquisitrici e inquisite. Tutto avviene a Roma, durante una calda estate romana, tutto si svolge regolarmente e tanto che i due delitti, all’inizio e alla fine dell’opera, non sembrano sconvolgere quella regolarità. Sono due eventi nuovi dei quali si ha bisogno di spiegazioni e le si otterrà dopo una serie interminabile di tentativi. Quando saranno complete, totali sembreranno essere giunte da sole, quando si scoprirà chi ha ucciso non ci si meraviglierà poiché lo si era capito. Quel processo esteso, prolungato, avviato nel romanzo, lo aveva fatto tanto aderire alla vita, gli aveva fatto comprendere tanti aspetti di essa da non poter più riuscire a sorprendere. Aveva, il romanzo, accolto ogni pensiero, azione, situazione dei personaggi presentati, si era mosso senza sosta tra essi, era passato dai tre ragazzi francesi che studiano a Roma al ricco padre, Henri, di uno di questi che vive e lavora a Parigi, alla sua morte per omicidio avvenuta a Roma, dal giurista inviato dalle autorità francesi per insabbiare il caso ai suoi difficili rapporti con la polizia italiana, dalla bellissima Laura, dalla figlia Gabriella, che ha avuto prima del matrimonio, al loro rapporto con un vescovo che sta per diventare cardinale e che è il padre della ragazza, dai tanti viaggi compiuti a Roma da Laura, che risiede a Parigi ed è la moglie di Henri, alla scoperta da parte di questi che a Roma lei viene per incontrare la figlia, della quale non ha mai saputo, e il vescovo-padre, dalle riunioni notturne, in casa di Gabriella, dei ragazzi francesi alla protezione e al sostentamento che ai quattro provengono da parte di Laura e del vescovo, dai furti nella Biblioteca Vaticana all’uccisione di Maria che in essa lavora e che li favorisce. Tanto, molto aveva accolto la narrazione ed era bastato che si cominciasse a sospettare che qualcosa era avvenuto e avveniva di nascosto perché si giungesse ad uccidere. Non sorprenderà l’azione criminale dal momento che prima di svelare chi la sta facendo Vargas farà conoscere tante altre persone, tante altre vite, prima di svelare che è il vescovo ad uccidere farà sapere di tutta la sua vita e di quella di Laura e Gabriella, amante e figlia, dei traffici clandestini ai quali si era ridotto ed aveva ridotto Laura affinché potessero sostenere economicamente la figlia ed i suoi amici. Per loro, per quei traffici Laura veniva tante volte a Roma che il marito si era insospettito, l’aveva fatta seguire e per paura che egli giungesse a sapere di tutto, lo divulgasse, si separasse da Laura il vescovo lo uccide e poi uccide Maria perché non si sappia della sua complicità circa i furti in Vaticano.
Tra tanto movimento, in una costruzione tanto articolata i due misfatti non fanno scalpore, rientrano in essa, sono da essa assorbiti, diventano un’altra delle sue realtà e il linguaggio della Vargas è così vario e ricco, così sicuro e preciso da procurare anche ad essi quella condizione naturale, autentica che è di tutta la narrazione. Vi riesce la scrittrice perché la sua attenzione non è rivolta all’esterno, a ciò che avviene nelle strade, nelle piazze delle sue città ma solo a quello che sanno, pensano, sentono, ricordano, dicono, temono i suoi personaggi, solo alla vita della loro anima, a quanto di questa vivono da soli e a quanto scambiano con gli altri. In una storia dello spirito si trasforma ogni romanzo della Vargas e come tale non può non essere vera, non può non accogliere tutto, compreso il delitto.
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