Tirocini per l’inclusione

SuperAbile.it del 26-02-2019

I “tirocini per l’inclusione”, un’occasione mancata. L’esperienza di una mamma

ROMA. Si chiamano “tirocini di inclusione sociale”, ma spesso sono un’esperienza di emarginazione e perfino umiliazione per chi dovrebbe trarne beneficio. Male organizzati, privi di continuità e di uno sbocco lavorativo, difficilmente raggiungono lo scopo per il quale sono nati: quello di preparare e avviare al lavoro i giovani con disabilità. A sollevare il problema, particolarmente attuale nel momento in cui la politica si occupa di “patto per il lavoro e per l’inclusione sociale”, è Bernadetta Manna, mamma e caregiver di una giovane con sindrome di Down.

“La nostra Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, anzi è una Repubblica fondata sul lavoro, addirittura ci induce a pensare che il lavoro dà dignità all’uomo e alla donna – scrive Bernadetta in una lettera inviata alla nostra redazione – Un diritto che è di tutti i cittadini, anche e oserei dire soprattutto, delle persone con disabilità . Perché il lavoro non serve solo a guadagnare, serve anche a riconoscersi ed essere riconosciuti in un ruolo sociale. In quest’ottica, sulla carta, La regione Marche (in cui Bernadetta vive, ndr) ‘promuove ogni forma di sostegno a favore del collocamento mirato e dell’inserimento lavorativo delle persone disabili anche tramite percorsi propedeutici e di avviamento al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro’. I tirocini di inclusione sociale sono una delle forme previste dalla Regione, atte a favorire l’inserimento lavorativo, attraverso percorsi concordati tra Asur , Comune, ditta ospitante”.

L’esperienza personale racconta però di una realtà molto diversa da quella prevista dalla normativa. “Anna, mia quinta figlia, con sindrome di Down, ha terminato la scuola superiore, una scuola professionale, 4 anni fa, dopo aver svolto, in ambito scolastico, numerosi stage formativi o alternanze scuola lavoro – scrive ancora Bernadetta – Ha iniziato quasi subito le esperienze ‘propedeutiche al lavoro’, ma con grande difficoltà di accettazione da parte di alcune aziende ospitanti, nonostante le capacità man mano acquisite. E, soprattutto, con tante pause intermedie, perché i tirocini hanno una durata limitata, e pare che il loro rinnovo (ovvero la compilazione di qualche foglio) richieda mesi. Ecco – riferisce Bernadetta – ora siamo in una di quelle pause”.

Ed è, questo della mancanza di continuità, uno dei principali ostacoli al compimento di una piena e vera inclusione, secondo quanto riferito da Bernadetta: “E’ questa una modalità di lavoro che dà dignità?”, domanda, precisando poi una serie di dettagli fondamentali, rispetto all’esperienza vissuta da sua figlia: “Primo, i ‘posti’ di lavoro li ho sempre cercati io, la madre, e ciò non mi sembra né corretto né produttivo. Ma dove sono gli enti preposti, i Centri per l’impiego, ecc..?”. Secondo. “un tirocinio ha una durata limitata, e soprattutto una prospettiva; quelli di inclusione sociale, no! Quelli sono infiniti e non portano a nulla”; terzo, “un tirocinio “normale’ prevede un compenso che si aggira sui 400 -500 euro: perché quelli per le persone disabili non arrivano ai 200? Costano invece molto di più, perché prevedono, quanto meno, notevoli spese di accompagno”.

Ci tiene poi a far sapere, Bernadetta, che sua figlia Anna “ha un curriculum molto ricco e porta avanti un apprendimento costante: obbligato, per mantenere le sue competenze. E costoso. Ma a chi interessa il suo curriculum? Glielo ha mai chiesto nessuno? Con l’ultima , dolcissima, tutor, abbiamo sperimentato anche lo strumento del video curriculum, al fine di “raccontare” meglio le sue competenze e meglio lavorare sulle sue difficoltà”. Nonostante tutti questi sforzi, “le pause vuote, i periodi morti, per lei come per ogni soggetto fragile, sono deleterie, sia perché deve ogni volta ricominciare da zero, sia perché si domanda, eticamente (ed è tutt’altro che fuori luogo questo termine, perché le persone con disabilità hanno delle fragilità, ma non sono né stupide né pigre), perché non possa proseguire un rapporto di lavoro in cui si è impegnata. Da parte mia, ho sempre lottato, con mia figlia e pagando ‘prezzi’ altissimi, per quella che, sempre sulla carta, viene chiamata inclusione, dal nido in poi; ho sempre chiesto e preteso che il PEI fosse un progetto partecipato e ‘reale’, mettendomi in gioco in prima persona, coinvolgendo anche fratelli e sorelle, redigendo con cura quella che era la mia parte di PEI e che quasi sempre viene lasciata vuota, perché troppo spesso si dimentica che la famiglia ha un ruolo primario, anche legale, nei confronti di un minore, e che l’inclusione è una partita che si ‘gioca ‘ insieme, famiglia, scuola, società”.

La conclusione di Bernadetta è amara: “No, non siamo un paese fondato sul lavoro e a non tutti i cittadini viene riconosciuta uguale dignità. Ma, una società che non tutela i suoi soggetti più fragili, non è una società civile”.