Ipotesi (concrete) di Regionalismo per l’Istruzione

Ipotesi (concrete) di Regionalismo per l’Istruzione

di Gian Carlo Sacchi

Il regionalismo nelle politiche formative filtra fin dalla Costituzione del 1948, che da un lato riconosceva le autonomie territoriali e dall’altro lasciava allo Stato le “norme generali sull’istruzione”. L’ingresso della nuova repubblica fu visto soprattutto nei diritti dei cittadini ad usufruire di un servizio, poco o nulla dalla parte del sistema – basti vedere la querelle ancora in atto sulle scuole paritarie- dove l’ordinamento Casati-Gentile venne considerato norma generale e quindi rimase sotto il controllo dello stato centrale.
Con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario furono delegate solamente le norme relative al diritto allo studio e portata sotto un unico dominio pubblico la miriade di enti che si occupavano di formazione professionale. In quel periodo diverse componenti della società fecero il loro ingresso nella vita delle scuole ed il “distretto” voleva essere il segnale di un diverso rapporto tra sistema scolastico statale e realtà territoriali; fu il primo vero momento di scontro tra il potere nazionale e la gestione sociale.
Gli organi collegiali però non ebbero la capacità di spostare l’asse delle decisioni; all’interno degli istituti studenti e genitori vennero ben presto limitati nell’intervento da un funzionario statale, il preside, custode delle disposizioni ministeriali e all’esterno i predetti distretti furono ricondotti ad un consiglio scolastico provinciale nelle mani del provveditore agli studi. Ma anche il mondo degli enti locali non vide di buon occhio la riforma della gestione della pubblica istruzione, da un lato per il timore dell’introduzione di altri organismi territoriali che potevano occupare il potere locale, e, dall’altro, per la possibilità che lo stato arretrasse dall’impegno finanziario scaricando sulla periferia i relativi oneri, come già avvenne per la formazione professionale regionale e per i servizi all’infanzia, facenti capo al settore del welfare comunale e sempre più richiesti dalla popolazione.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso una serie di provvedimenti investì l’organizzazione dello Stato: dalla riforma degli enti locali con la quale prese consistenza il settore formativo all’interno di comuni e province, a quella della pubblica amministrazione che decentrò competenze dell’istruzione anche alle scuole, divenute per effetto di questi ultimi interventi legislativi autonome con tanto di personalità giuridica.
All’alba del terzo millennio venne realizzata la revisione del titolo quinto della Costituzione, con referendum confermativo, che ripropose la stessa formulazione sulle norme generali di competenza statale alle quali furono aggiunti i principi fondamentali, ma introdusse un governo misto in cui dovevano agire in modo “concorrente” stato e regioni, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Con l’art. 116 fu data a queste ultime la possibilità, a richiesta, di avere maggiori gradi di autonomia, da concordare con il governo centrale e da concretizzarsi con legge nazionale. Esse avevano facoltà di entrare sia nelle competenze concorrenti sia in quelle esclusive dello Stato, come appunto le norme generali sull’istruzione.
La legge costituzionale del 2003 però non fu applicata, molto contenzioso suscitarono le suddette competenze concorrenti, l’autonomia scolastica da salvaguardare è rimasta largamente incompiuta ed i livelli essenziali delle prestazioni, che dovevano garantire parità dei diritti su tutto il territorio nazionale, elaborati nella sanità, abbozzati nel welfare, mancano del tutto nel settore formativo, se si eccettua il DPR 226/2005 che guardava più ai rapporti tra stato e regioni che ai diritti dei cittadini nei confronti del servizio.
Dopo il secondo scontro tra centro e periferia prodottosi in relazione alle più volte citate competenze concorrenti ,a difesa delle autonomie regionali, eccoci al terzo, al contrario, paventando che le tre regioni che hanno fatto richiesta di più autonomia: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, cerchino di minare l’unità nazionale.
Per giungere a quel traguardo esse devono dimostrare di possedere un bilancio in equilibrio ed osservare i vincoli economici e finanziari dell’UE, ma il numero potrebbe allargarsi come già annunciato da: Campania, Lazio, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche- Umbria: queste ultime hanno avviato insieme la pratica, occasione per riconsiderare anche i confini territoriali ? Guardando alla realtà tutt’ora fortemente statalista si fa notare (CENSIS 2018) che è la situazione attuale quella già differenziata, e non si fa fatica a riconoscerlo in base a tutte le ricerche nazionali ed internazionali di cui disponiamo; intanto cresce un forte bisogno di rappresentanza dei territori, che potrebbe riavvicinare i cittadini alla politica, nonché la necessità evidente di ridefinire i rapporti tra le regioni e lo stato centrale.
Un sistema di autonomie potrebbe riguardare tutte le regioni e in futuro ritornare sull’idea di una camera nazionale delle stesse. Le leggi regionali che saranno di supporto alle intese con il governo nazionale potranno essere l’occasione per completare il decentramento amministrativo nel settore e la stessa autonomia scolastica che ha bisogno di migliori condizioni per potersi esplicare compiutamente; la sua elevazione a dignità costituzionale la mette al riparo da nuovi centralismi regionali.
Il “contratto di governo” su cui si basa l’attuale maggioranza riconosce le ulteriori competenze che conferiranno maggiore responsabilità al territorio in termini di equo soddisfacimento dei servizi e di efficienza-efficacia dell’azione svolta. “Il governo è teso a rafforzare la logica delle geometrie variabili che tenga conto delle peculiarità e delle specificità delle diverse realtà territoriali e della solidarietà nazionale”. Dall’altra parte la conferenza delle regioni afferma il ruolo propulsivo delle medesime nel processo di definizione dei nuovi assetti istituzionali volto alla definizione dell’autonomia differenziata, nel rispetto dei principi di adeguatezza, sussidiarietà, unità giuridica ed economica dello Stato: coniugare il principio di differenziazione con quello di leale collaborazione. Dunque la secessione è scongiurata.
Le funzioni fondamentali di regioni ed enti locali già individuate dalla legge sul federalismo fiscale e dai suoi decreti applicativi saranno finanziate attraverso la compartecipazione o riserva di aliquota nel gettito di uno o più tributi erariali maturati a livello regionale, iniziando dalla “spesa storica” e procedendo verso il calcolo del fabbisogno/costo standard misurati sulla base della popolazione residente ed alla capacità fiscale dei territori. Su questa base si terrà conto in futuro della ricchezza prodotta in sede regionale, ma la Costituzione prevede un contributo perequativo nazionale per i minori introiti.
Un’intesa governo-regioni sfocia in un disegno di legge da approvare a maggioranza assoluta. Qui c’è un dibattito giuridico aperto relativo alla possibilità del Parlamento di emendare un testo oggetto di un accordo bilaterale. A questo si potrebbe aggiungere l’ipotesi di un progetto costituzionale qualora fossero tutte le regioni ad aderire.
Dal momento che l’iniziativa è delle singole realtà regionali c’è da spettarsi una diversa impostazione anche per quanto riguarda le materie: le politiche formative infatti non sembrano indicate da Liguria, Campania e Lazio, anche se non avendo depositato per ora un preciso documento al riguardo, ci potrebbero essere delle variazioni in seguito. Quest’ultima vorrebbe far precedere le proprie richieste dalla definizione dei predetti livelli di prestazioni sul piano nazionale. Emilia-Romagna, Marche-Umbria, Toscana e Piemonte intendono agire soltanto sull’istruzione tecnica e professionale, superiore, universitaria e non, al fine di collegare meglio la formazione, statale e regionale, con il mondo delle imprese e del lavoro. Solo Lombardia e Veneto chiedono di intervenire oltre che sulle competenze concorrenti anche sulle norme generali, spostando tutto sulla regione, compreso l’apparato amministrativo del ministero, così da assomigliare alle regioni a statuto speciale.
Oltre a ribadire le funzioni di programmazione della rete scolastica, degli organici e la loro attribuzione alle scuole autonome, l’Emilia Romagna insiste sulla realizzazione in ambito regionale di un sistema integrato di istruzione e formazione professionale che permetta di sviluppare le professionalità in coerenza con le opportunità occupazionali del territorio, assicurando ai giovani la possibilità di scegliere se assolvere il diritto-dovere all’istruzione nel sistema statale o in quello regionale. Qualificare l’offerta di istruzione e formazione tecnica e professionale a partire dalla piena valorizzazione dell’autonomia scolastica, che in questo settore viene così potenziata, mentre per il resto rimane sotto il governo centrale, nonché garantire un’offerta di formazione terziaria, gli ITS, anche attraverso la definizione delle relative fondazioni, per corrispondere alla domanda di alte competenze tecniche e tecnologiche del sistema produttivo. Saranno previsti percorsi universitari integrativi, con fondi per la didattica, la ricerca e la terza missione. Rendere effettivo il diritto allo studio scolastico e universitario con appositi incentivi e servizi dedicati.
Un piano pluriennale, concordato con l’USR, dovrà definire la dotazione organica del personale, per soddisfare l’offerta formativa regionale, fermo restando l’ordinamento statale, nonché la costituzione di un fondo pluriennale per l’edilizia scolastica. La regione vuole entrare nella programmazione universitaria del territorio, nel rispetto però dell’autonomia degli atenei.
Per Lombardia e Veneto la richiesta è di subentrare allo Stato in tutte le materie indicate dalla Costituzione, con trasferimento di beni, risorse, personale, in modo da ridimensionare l’amministrazione statale periferica. E’ attribuita alle regioni la potestà legislativa in materia di norme generali sull’istruzione, in particolare per quanto riguarda l’organizzazione del sistema educativo regionale e la modalità di valutazione, l’alternanza scuola-lavoro, l’apprendistato, contratti integrativi al personale, programmazione dell’offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale, della rete scolastica, incluso il fabbisogno di personale e la sua distribuzione; ulteriori criteri per il riconoscimento della parità scolastica ed i contributi alle scuole paritarie, disciplina degli organi collegiali territoriali; sistema dell’istruzione degli adulti e la programmazione dei CPIA. Anche qui come in Emilia Romagna si provvede all’organizzazione delle fondazioni ITS ed alla costituzione di fondi per il diritto allo studio.
In questi due territori sarà costituito un ruolo regionale per i dirigenti scolastici con la facoltà di nomina da parte della regione stessa, come avviene in Trentino, e del personale docente e ATA, i quali beneficeranno di contratti integrativi regionali. I concorsi verranno banditi sempre dalla regione sulla base del fabbisogno. Una quota di posti andrà alla mobilità in relazione alla normativa nazionale. Non c’è invece mobilità volontaria per i dirigenti.
Esse hanno potestà legislativa in materia di edilizia scolastica; concorrono alla programmazione universitaria, alla sua valutazione e costituiscono un fondo integrativo per la didattica. Definiscono i requisiti ed i riconoscimenti per i ricercatori di impresa, valorizzando il lavoro di ricerca nel settore privato. Si interessano di tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici.
Il Veneto poi intende istituire un’agenzia digitale di supporto agli enti locali ed alle imprese, promuovendo la ricerca e lo sviluppo delle tecnologie anche nella pubblica amministrazione, in relazione all’agenda digitale nazionale ed europea.
Le prerogative regionali vengono tuttavia esercitate nel quadro generale dell’ordinamento nazionale, dei livelli essenziali delle prestazioni, con riferimento alle competenze dell’INVALSI e alle direttive sulla valutazione; si dovrà tener conto della contrattazione per il personale e delle disposizioni sugli organici, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.
Le intese sono in via di definizione; ci sarà da aspettarsi qualche imboscata in Parlamento? In Italia il percorso politico non è mai lineare, ma un dato nuovo questa avventura lo porta ed è quello di vedere maggioranza ed opposizioni agire in maniera incrociata tra centro e periferia, dichiarando con trasparenza le motivazioni delle rispettive posizioni e quale può essere il punto di convergenza nell’interesse del Paese, senza condizionamenti burocratici o di altre organizzazioni.
Sarebbe la prima volta, con la modalità differenziata, che si arriva ad applicare la Costituzione, conferendo fino in fondo il ruolo che era stato assegnato alle Regioni fin dalla loro istituzione, uscendo almeno sul piano politico dall’idea dello statuto speciale di alcune di esse. Il dibattito si snoda tra le materie e le risorse: c’è chi è più interessato ai nuovi compiti e chi è più preoccupato dei finanziamenti. E’ compito del governo nazionale rassicurare su entrambi i fronti.
Di questo percorso trarrà beneficio anche l’autonomia scolastica, che potrà vedere valorizzata la propria progettualità solo se sarà in grado di misurarsi con il proprio territorio in termini di libertà e responsabilità, uscendo dalla tutela e da un regime di concessioni, senza ovviamente rinunciare al perseguimento delle finalità formative da valutare nell’ambito del sistema nazionale.