Quale “tempo” nella scuola primaria

Quale “tempo” nella scuola primaria

di Rosaria Cetro

 Tornare a discutere  su quale tempo scuola  sia più favorevole all’apprendimento del  bambino nella primaria diventa più che mai necessario, data l’importanza che assume la variabile tempo nella costruzione di un buon ambiente di apprendimento.

La mia esperienza trentennale  di direzione  nella scuola primaria,  in provincia di Napoli,  ha visto il passaggio da due uniche modalità organizzative sul territorio nazionale, tempo pieno di 40 ore  e  tempo normale di 24 ore,  ai  diversi  modelli  nella scuola elementare rinnovata dai Programmi dell’’85 e dalla legge di Riforma  148/90. E,ancora, dalle riforme Moratti del 2003 e Gelmini del 2008.

La storia di quegli anni è di grande utilità per riflettere sul  presente.

Nei primi anni di applicazione della Riforma 148/90, le classi a tempo normale avevano un curricolo di 27 ore settimanali. Con la progressiva diffusione della lingua straniera e la disponibilità di 3 insegnanti su 2 classi, si arrivò a 32 ore settimanali, da  ripartire su cinque o sei mattinate, con tre o due prolungamenti/rientri pomeridiani. La Legge obbligava le scuole a   distribuire l’orario settimanale in antimeridiano e pomeridiano, al fine di “rispettare le esigenze complessive di benessere psico-fisico dei bambini e garantire le migliori condizioni per l’apprendimento”.

Anche con 27 ore settimanali, si  sottolineava il carattere eccezionale e del tutto transitorio dell’eventuale adozione di un orario antimeridiano continuato “che è improduttivo sotto il profilo didattico e crea affaticamento negli alunni”. La deroga ai prolungamenti o rientri era prevista solo per temporanei impedimenti: gravi carenze edilizie e doppi turni. L’assenza della mensa, invece, non costituiva un motivo valido a giustificare l’adozione automatica dell’orario antimeridiano.

Per molte scuole del Sud,  dove il tempo pieno era quasi del tutto assente e  gli Enti locali riuscivano a malapena ad assicurare la mensa alla scuola materna, la strada dei prolungamenti con servizio mensa non era realizzabile: non  furono trovate  alternative ai rientri.

In assenza di adeguati servizi, i rientri ponevano però diversi problemi alle famiglie e alla gestione della scuola. Chi ha  avuto la responsabilità di dirigere la scuola in quegli anni ricorderà come una sfida continua il dover assicurare le attività di pomeriggio, soprattutto d’inverno.

Con l’Autonomia organizzativa, contemplata dal Regolamento n. 275/99, si rimetteva alla determinazione delle singole scuole l’adattamento del calendario scolastico, ma non  l’organizzazione dell’attività didattica, che doveva essere comunque ripartita tra mattina e pomeriggio, al fine di garantire tempi di apprendimento distesi.

Fu la riforma Moratti ad allentare la necessità dei rientri, portando il  tempo scuola a 30 ore settimanali e distinguendo tra curricolo obbligatorio di 27 ore e curricolo facoltativo di 3 ore. Molte scuole adottarono così l’orario antimeridiano su sei giorni per il curricolo obbligatorio, riservando il pomeriggio alle attività del curricolo opzionale. Successivamente, con la riforma Gelmini, il monte ore delle classi di scuola primaria a tempo normale  si attestò definitivamente sulle 27 ore settimanali. E così, anche per effetto dei forti  tagli al personale docente e Ata, con conseguente difficoltà a gestire le attività pomeridiane, nonché dell’abrogazione dell’art.129 del T.U. 297/94 (ex art. 7 legge 148/90) con cui cadeva l’obbligo di ripartire  le attività didattiche  in orario antimeridiano e pomeridiano, per molte scuole arrivò il momento di dire addio ai rientri.

Con un curricolo ridotto a 27 ore settimanali si rese possibile l’adozione dell’orario antimeridiano continuato su sei giorni. Con opportuni accorgimenti, nella distribuzione delle compresenze e dei carichi disciplinari, si potevano rispettare le esigenze complessive di benessere psico-fisico dei bambini e garantire nel contempo le migliori condizioni per l’apprendimento .

Attualmente,  l’attenzione  alle esigenze del bambino, dettata dal forte “Credo pedagogicodegli anni ’70  e  richiamata con insistenza dalla Legge di Riforma e dalle norme ad essa collegate, sembra essersi affievolita. Altre istanze hanno preso il posto nelle scelte organizzative delle scuole.  In primo luogo quelle delle Amministrazioni locali che cercano di ridurre i costi dei servizi. Così, anche sulla spinta delle famiglie, sono sempre più numerose le scuole che scelgono di adottare la  cosiddetta “settimana corta. Ma, con quale articolazione oraria? Nel Nord Italia la maggior parte delle classi funzionanti a 27 ore su cinque giorni ha due prolungamenti con mensa .  Le scuole del Sud, invece, risultano essere ancora una volta  le più penalizzate  dall’assenza di servizi. In  molti casi, le 27 ore settimanali sono distribuite  tutte di mattina,  con quadri orario di oltre cinque ore al giorno.  Questa modalità si diffonde a macchia d’olio  e risulta tanto più  fattibile quante  più scuole l’adottano.

Ma non sempre le soluzioni più semplici sono le migliori. Con l’Autonomia, l’articolazione dell’orario settimanale  è divenuta  ormai  prerogativa delle singole scuole. E mentre la questione infiamma le famiglie, talvolta con strascichi  giudiziari ,   sembra essere del tutto scomparsa dal dibattito pedagogico nazionale. 

Vero è che l’Autonomia ha concesso alle scuole  ampi spazi di libertà organizzativa e didattica, ma ciò non esclude il dover progettare l’intervento educativo in modo “adeguato ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo” (c.2 art.1 D.P.R. n.275/1999).

Le recenti ricerche del cronobiologo Yvan Touitou  ravvisano l’importanza di  adeguare le ore di lezione al ritmo dell’orologio biologico per potere ottenere attenzione e migliori risultati dagli studenti. In particolare, i bambini hanno bisogno di molte pause e di vacanze non troppo lunghe, per non dimenticare quanto appreso. In Francia le ricerche del professore Touitou  hanno stimolato il dibattito e ispirato una buona  riforma dei tempi scolastici.

 Anche per noi  sarebbe auspicabile un orientamento ministeriale a riguardo. Si potrebbero  trovare le risposte nel  vasto patrimonio della cultura pedagogica, costituito  in anni di studi e di ricerche,  che ha fatto sì che la scuola primaria italiana si affermasse tra le migliori del panorama internazionale .

Intanto, spetta alle scuole, ai dirigenti scolastici e ai docenti  riappropriarsi del loro ruolo di veri professionisti dell’educazione e,  senza cedere alle istanze incontrollate di famiglie e territorio, formulare la proposta tecnica più adatta a garantire la qualità del servizio scolastico nei modi e nei tempi previsti.

 Non si tratta di dire sì o no alla settimana corta, ma  di offrire al bambino un  tempo scuola adeguato ai suoi modi e ritmi  di apprendimento, cogliendo l’occasione per  rilanciare agli Enti locali richieste di risorse e servizi.  Occorrono nuovi investimenti nelle strutture, il potenziamento dei servizi, insieme a una  rinnovata attenzione  al bambino-scolaro da parte di famiglie e operatori scolastici, per garantire  migliori condizioni di apprendimento. In ultima analisi, una scuola di qualità, se pensiamo che una testa ben fatta  sia meglio  di una testa ben piena.