Verso censimenti permanenti

da ItaliaOggi

Alessandra Ricciardi

Intervista a Gian Carlo Blangiardo, nuovo presidente ISTAT

Siamo in piena crisi demografica, una crisi che neppure l’immigrazione riesce a bilanciare. «Il primo obiettivo deve essere bloccare la discesa. Successivamente si può pensare a invertire la tendenza sulla fecondità», ragiona Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, professore ordinario di Demografia all’Università di Milano Bicocca. «Le soluzioni ci sono, ma richiedono risorse e riconoscimenti valoriali. Occorre partire dalla consapevolezza che i figli che si fanno sono un valore anche economico per la società… sono loro che pagheranno le future pensioni ». Blangiardo è alla guida dell’Istituto di statistica da febbraio scorso, di questi giorni la rilevazione che ha registrato la ripresa dell’economia italiana. Nell’intervista con ItaliaOggi spiega come cambierà l’Istat, con, tra gli altri, «nuove statistiche sulle famiglie e la presenza straniera».

Domanda. Presidente, partiamo dall’ultimo rapporto dell’Istat che ha registrato nel primo trimestre 2019 una crescita del 0,2% del pil dopo due trimestri negativi, anche l’occupazione è cresciuta a marzo dello 0,3%. È possibile dire che siamo usciti dalla recessione?

Risposta. Più che recessione parlerei di lieve e breve flessione dell’attività economica, coerente con uno scenario internazionale che nel 2018 è stato certamente difficile. Da questo punto di vista la ripresa del pil di inizio 2019 è sicuramente confortante, soprattutto alla luce dei miglioramenti del mercato del lavoro, e consente di guardare in modo diverso all’immediato futuro della nostra economia; tra l’altro i dati europei confermano che ai segnali di ripresa congiunturale in Italia corrisponde un’accelerazione della crescita media dell’area Uem, ora a +0,4%, con possibili effetti positivi sulla domanda estera che si rivolge alle nostre imprese.

D. Cosa risponde a chi accusa queste rilevazioni di essere parziali, limitate ad un arco temporale troppo breve per essere significative? A marzo 2019, rispetto a prima del giuramento del governo Conte, maggio 2018, in Italia ci sono 35 mila occupati in meno, di cui 19 mila a tempo indeterminato, rileva per esempio Luigi Marattin.

R. È evidente che, per essere interpretate correttamente, le variazioni mese su mese dell’occupazione vanno inquadrate in un contesto più ampio. Osservando i dati emerge come il livello di occupazione abbia toccato il valore massimo a maggio 2018 per poi scendere fino a ottobre e mostrare un recupero già da novembre dello scorso anno: nel periodo compreso tra ottobre 2018 e marzo 2019 gli occupati sono cresciuti di quasi 100mila unità. Il dato di marzo non sembra quindi isolato, ma rafforza una tendenza in atto da cinque mesi.

D. Ma la nostra economia è ancora in stagnazione ?

R. Le positive stime preliminari del Pil del primo trimestre derivano da dinamiche settoriali di crescita diffuse a tutti i principali comparti (agricoltura, industria e servizi). Il fatto che il recupero di inizio anno non derivi solo dalla ripresa della produzione industriale ma si estenda agli altri settori può indicare in qualche misura un cambiamento ciclico in corso, anche se i fattori di incertezza sullo scenario economico sono ancora attivi.

D. Riassumendo, ci sono segnali di ripresa, e poi il debito privato è sotto la media, l’export tira, il debito pubblico è solo per il 24% in mano ai creditori esteri e c’è un avanzo primario dell’1,6%: secondo lei a fronte di questi dati i giudizi de mercati, e dunque spread e rating, sono giustificati?

R. L’economia italiana, seppure continui a mantenere un ritmo di crescita nettamente inferiore a quello delle altre grandi economie europee, ha mostrato resilienza e capacità di reazione, soprattutto sul fronte della competitività esterna. È inoltre pienamente integrata con le altre economie e riveste un ruolo rilevante nelle catene globali del valore. Ritengo che questi aspetti debbano essere maggiormente valorizzati per una obiettiva valutazione da parte dei soggetti che influenzano i mercati finanziari.

D. Quali sono i settori più vitali dell’economia del Paese?

R. Il settore manifatturiero ha mostrato una notevole capacità di riposizionamento dopo la doppia crisi, con una performance di livello assoluto e risultati che hanno contribuito in modo cruciale al parziale recupero realizzato in questi anni dal nostro sistema economico, aumentando ad esempio la propensione innovativa e la presenza delle imprese sui mercati esteri. Comunque, in base al nostro Indicatore sintetico di competitività, ai primi posti della graduatoria risultano i settori delle bevande, la chimica, la farmaceutica, i macchinari.

D. E i servizi?

R. I comparti dei servizi mostrano maggiori eterogeneità, con una minore diffusione delle spinte alla crescita, derivante in parte dall’eccessiva frammentazione dimensionale e in parte da una persistente debolezza della domanda interna, solo in parte mitigata da una buona performance dei comparti maggiormente sensibili alla domanda estera, ad esempio turistica.

D. A livello territoriale che gap ha riscontrato?

R. È un aspetto che rappresenta tuttora forti criticità, e condiziona in misura rilevante la capacità di crescita economica e riduzione delle disuguaglianze. Tra il 2011 e il 2017, il Mezzogiorno ha registrato la massima flessione del Pil tra le diverse ripartizioni: il gap economico preesistente si è quindi aggravato nonostante la ripresa economica. Oppure, guardando alle dinamiche recenti, se nella media nazionale l’incidenza delle imprese «in ripiegamento» (quelle che nel 2018 hanno registrato flessioni di fatturato sia sul mercato interno sia su quello estero) è pari a poco meno di un terzo del totale, nel Mezzogiorno la stessa incidenza è superiore di oltre 6 punti.

D. Le imprese utilizzano bene il capitale umano esistente oggi in Italia?

R. Secondo le nostre analisi nel 2017 il fenomeno della «sovraistruzione» riguarda 5 milioni 569 mila occupati, il 24,2% del totale e il 35,0% degli occupati diplomati e laureati. Si tratta quindi di un fenomeno rilevante, che da un lato ostacola una maggiore crescita economica, dall’altro genera ampi effetti negativi sul piano sociale.

D. Che strategia intende perseguire alla guida dell’Istituto?

R. La valorizzazione delle fonti amministrative e dei Big data e l’ulteriore specializzazione delle indagini statistiche rappresentano aspetti strategici della produzione statistica e gli investimenti fatti vanno trasformati in guadagni informativi percepibili per la collettività e le istituzioni. Si tratta da un lato di migliorare gli strumenti, con nuovi sistemi di raccolta dati, innovazioni digitali, esplorazione di nuove fonti, innovazioni nelle metodologie, dall’altro di accelerare il rilascio di informazioni sempre più integrate e granulari, a supporto delle decisioni individuali e collettive.

D. Perché puntate sui censimenti permanenti?

R. La strategia di costruzione di un sistema basato sui censimenti permanenti su popolazione, istituzioni, imprese, no profit e agricoltura, in grado di produrre annualmente statistiche dettagliate su tutte le principali aree tematiche va nelle direzione che ho appena indicato. Ad esempio, sul territorio è possibile misurare simultaneamente e in modo dettagliato diversi aspetti: le strategie e risultati economici per le imprese, il profilo reddituale e la partecipazione al mercato del lavoro per gli individui e molte altre dimensioni tematiche integrate.

D. Quali saranno i settori sui cui vorrà intervenire?

R. Verranno sviluppate statistiche nuove sulle famiglie come soggetto portante della società e la lettura familiare delle condizioni di vita e di progresso della popolazione, saranno creati un sistema statistico integrato delle statistiche sociali e un altro sul lavoro, sviluppati nuovi indicatori sulla presenza straniera, sulla violenza di genere, sulle discriminazioni, sull’infanzia. Le innovazioni riguarderanno anche altre tematiche, tra queste, la creazione di un nuovo modello di breve periodo sull’economia italiana; lo sviluppo di nuovi indicatori su benessere e sostenibilità; la realizzazione di un sistema strutturato di statistiche sulla Pubblica Amministrazione; nuove misurazioni sulla globalizzazione, l’economia digitale, l’economia delle piattaforme, i conti dell’ambiente.

D. Lei è un demografo, qual è lo scenario per il nostro paese?

R. Uno scenario tutt’altro che roseo, stiamo vivendo una crisi demografica importante, il saldo tra natalità e mortalità è negativo dagli anni ‘90, e dal 2013 facciamo il record negativo ogni anno, nel 2018 è arrivato a 200 mila unità in meno. Il dato è che sotto i due figli per donna non c’è ricambio. E noi siamo sotto dagli anni 70, oggi a 1,3.

D. Che cosa consiglierebbe al decisore politico?

R. Il primo obiettivo è bloccare la discesa. Successivamente si può pensare a invertire la tendenza sulla fecondità. Le soluzioni ci sono, penso al part-time per le donne che diventano madri, che però non deve essere penalizzante ai fini della carriera, così come a una rete diffusa di servizi di welfare, a partire dagli asili nido. Ma occorre partire dalla consapevolezza che i figli che si fanno sono un valore anche economico per la società… sono loro che pagheranno le future pensioni.

D. Su questo come siamo messi rispetto all’Europa?

R. Anche in altri paesi europei il tasso di natalità è sceso, ma a un certo punto c’è stata un’inversione di tendenza, penso a Germania, Danimarca, Austria, Ungheria, Repubblica ceca. È la dimostrazione che qualcosa si può fare.

D. L’immigrazione non serve a bilanciare?

R. È dal 2015 che l’immigrazione, che è essenzialmente proveniente da sbarchi e per motivi di lavoro, non è più in grado di bilanciare la detanalità.

D. Gli immigrati rappresentano un valore per l’economia italiana?

R. Va preso atto che, sia ai fini della crescita del Pil che della contribuzione previdenziale, si tratta di un apporto indiscutibile sebbene concentrato in qualifiche professionali medio-basse.

D. Ai nostri confini il continente africano ha tassi di natalità altissimi, il solo Niger nei prossimi vent’anni si stima passi dagli attuali 200 a 400 milioni di abitanti. C’è il rischio che l’Italia e in generale l’Europa finiscano per essere africanizzati?

R. È difficile stimare cosa possa accadere da qui a 20, 30 o 40 anni, ma è di tutta evidenza che i flussi migratori vanno gestiti. E serve una politica europea per riuscirci. L’Italia è un molo nel Mediterraneo e non è utile a se stessa e a tutta l’Europa che sia lasciata da sola in questa situazione a gestire il fenomeno degli sbarchi.

D. A che misure pensa?

R. I migranti devono essere sostenuti qui e nei loro paesi di origine. Attrarre migrazioni qualificate e al tempo stesso utilizzare i flussi in entrata e in uscita come fattore di sviluppo per i paesi di origine.