Cacciatore ai tempi del fascismo
di Antonio Stanca
Nato a Polistena, in provincia di Reggio Calabria, nel 1967, Giacomo Cacciatore è sempre vissuto a Palermo. Dopo la laurea in Lingue straniere ha collaborato per molto tempo, tramite racconti e corsivi, con l’edizione siciliana de “la Repubblica”. Con i romanzi ha cominciato nel 2005 e parecchi ne ha scritto senza abbandonare i primi generi della sua produzione. Alcuni romanzi sono stati tradotti all’estero, in particolare in Francia, Germania e Spagna. Altri hanno avuto una trasposizione cinematografica alla quale, a volte, ha lavorato lo stesso autore come sceneggiatore o come regista. Anche al teatro si è applicato Cacciatore ed anche in collaborazione con altri autori ha prodotto. Ha soltanto cinquantadue anni e tanto ha fatto, in tante direzioni si è mosso. Questo, in verità, si chiede oggi ad un autore perché si affermi, perché venga conosciuto. Non lo si pensa come prima, distante, lontano da quanto accade ma impegnato nei problemi della vita, della società, partecipe dei moderni mezzi usati per discuterli siano essi di stampa o di spettacolo. Succede, infatti, che quasi sempre come giornalisti comincino oggi molti scrittori e che anche della televisione o del cinema o del teatro facciano una loro espressione. Cacciatore è uno di questi casi ma a differenza di altri che non sono riusciti a liberarsi dai modi propri del giornalismo tanto poco il loro ingegno ha saputo creare, egli fin dall’inizio si è mosso nei due campi con l’abilità richiesta da ognuno di essi, ha saputo essere giornalista e scrittore senza che nessuna delle attività risultasse ridotta o guastata dall’altra. Un’ennesima prova viene dall’ultimo romanzo Piccola italiana, pubblicato quest’anno dalla casa editrice Fernandel di Ravenna.
Lo sguardo dello scrittore è rivolto all’indietro, all’Italia della metà degli anni Trenta, l’Italia del fascismo, quando, avvolta in un panno di lana e poggiata in una cesta insieme ad una lettera di raccomandazione da parte della madre, viene trovata sulla porta di un orfanotrofio una bambina appena nata. Il nome, Agata, veniva dalla lettera, il cognome, Amodio, verrà dall’istituto dove crescerà e studierà nonostante il suo carattere ribelle, bisognoso d’indipendenza, di autonomia, non si concili con il posto, con le sue regole, con le persone alle quali è stata affidata. Le suore prima e le insegnanti poi dovranno lottare per ottenere da Agata il rispetto dovuto, per riportarla entro l’ordine, i principi necessari per una formazione giusta, equilibrata. Molto difficili saranno i loro rapporti anche se qualche volta faranno sperare in un miglioramento.
Agata si legherà alla coetanea Virginia Levi, di facoltosa famiglia ebrea, messa in istituto solo per un periodo di tempo prestabilito. Insieme le due bambine faranno una coppia inseparabile, stipuleranno un patto di amicizia ma diverse rimarranno. Virginia è dolce, remissiva, non disobbediente come Agata. Non mancheranno gli screzi anche tra loro e, tuttavia, si ricomporrà sempre il loro rapporto, continueranno sempre a stare insieme, rimarranno sempre lontane dalle altre compagne di classe. Ora frequentano la scuola media, siamo nel 1936 e il fascismo è al suo apice. Ovunque imperversa la figura, la voce, l’idea del Duce, si dice addirittura di una sua visita all’orfanotrofio, l’insegnante di quella classe è completamente presa, è innamorata di Mussolini e a lei Agata non risparmia frecciate contro il fascismo. Sarà messa in punizione, in una stanza buia, sporca e fredda, sarà chiamato lo psichiatra perché la riduca alle ragioni richieste dall’ambiente. Non si otterrà molto, continueranno gli scontri con l’insegnante, con le suore, con le altre compagne. Virginia, finito il periodo stabilito, rientrerà a casa ma per essere deportata nei campi di sterminio mentre all’orfanotrofio quell’insegnante verrà trovata morta senza che si capisca se per omicidio o per suicidio e senza che si sappia se Agata rimane o esce dall’istituto.
Così, con una serie di avvenimenti che succedono contemporaneamente, che si intrecciano, si complicano, si aggravano, si confondono, Cacciatore conclude il romanzo sembrandogli la maniera più degna, la migliore dopo averne fatto una rappresentazione quanto mai lunga di cosa possa succedere nella vita, di come, di quanto si possa star male. E’ una vita al negativo quella narrata dallo scrittore, è la storia di un dramma non limitato ma esteso, dalla madre abbandonata al carattere della bambina, alla morte dell’insegnante, ai campi di sterminio. E’ una dilatazione alla quale Cacciatore giunge senza trascurare l’indagine psicologica dei personaggi presentati, i particolari dei luoghi della vicenda. Sicuro dei mezzi espressivi, abile nella costruzione dell’opera si dimostra, inoltre, lo scrittore, capace di operare il recupero dettagliato di un passato che sembrava finito e per sempre.
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