ATA, collaboratore scolastico licenziato per scarso rendimento. Il caso in tribunale

da Orizzontescuola

di Avv. Marco Barone

I licenziamenti nella scuola c’era e ci sono e ci saranno, contrariamente a quanto si crede. Certo, non si tratta di una casistica quantitativamente importante, ma nella scuola le fattispecie di licenziamento sono chiaramente contemplate nella normativa di riferimento, contrattuale, Testo Unico della scuola e Testo Unico del Pubblico Impiego.

Ma sono rari, i licenziamenti che si verificano per scarso rendimento, eppure esistono, come nel caso che ora segue che è interessante anche per i principi come espressi dalla Corte d’Appello Brescia Sez. lavoro, Sent., 12-02-2019

Fatto

Un collaboratore scolastico ricorreva alla Corte d’Appello di Brescia per impugnare la sentenza del Tribunale ordinario che confermava il licenziamento disciplinare motivato da un persistente insufficiente rendimento ai sensi dell’articolo 95 comma 7 del CCNL 2007 del comparto scuola, come richiamato dall’art. 55 D.Lgs. n. 165 del 2001.Il licenziamento trae origine dalla relazione del con la quale dirigente scolastico dell’Istituto di riferimento informava l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari del personale dell’ufficio della scuola dei comportamenti tenuti dal dipendente. che consistevano nel rifiuto reiterato di effettuare le pulizie a lui delegate dall’ordine di servizio fin dall’inizio della prestazione, nonostante il dirigente stesso gli avesse comunicato ripetutamente che erano di competenza dei collaboratori scolastici e non, come da lui sostenuto, degli enti locali proprietari dell’edificio. Il dirigente inoltrava ulteriori segnalazioni a seguito di ulteriori lamentele, specificando di volta in volta quali parti della scuola risultavano in condizioni di pulizia riprovevoli e quanti richiami egli stesso avesse fatto al collaboratore scolastico al proposito. All’esito dell’audizione disciplinare nella quale il lavoratore assistito da difensore, aveva dichiarato di non avere mai proceduto alle pulizie e di non volerlo fare per il futuro,perchè non di sua competenza, veniva irrogato il licenziamento disciplinare.

La norma

La norma prevede il licenziamento, in effetti, nel caso di “scarso rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio” (art. 55-quater, comma 1, lett. F-quinquies).

Quella delle pulizie è una mansione rientrante negli obblighi del collaboratore scolastico

“Non si può dimenticare che, oltre ad essere quella delle pulizie una mansione ricompresa negli obblighi del collaboratore scolastico, le pulizie che vengono rifiutate sono quelle di più basso impegno, spazzare il pavimento, spolverare e pulire i banchi in sole quattro classi, per le quali è ovvio che ogni tesi difensiva è francamente non sostenibile. Per la stessa ragione, è del tutto inutile sentire il teste che dovrebbe affermare di aver rifiutato di ricevere il certificato medico che comprova la presenza di alcune patologie fisiche: a prescindere dalla circostanza che il rifiuto di svolgere attività di pulizia non è mai stato collegato a tali patologie, anche a non voler considerare che dal certificato medico non si evince che le stesse siano in qualche modo invalidanti, le pulizie a lui richieste, spazzare e spolverare, sono mansioni tipicamente riservate, come è noto, proprio ai soggetti invalidi, ai quali, qualora siano certificate delle limitazioni (in questo caso non ne esiste traccia nel certificato medico, nemmeno successivamente), viene sottratta quella parte di mansioni più pesanti che prevedono l’utilizzo di scale, ad esempio, ma non certo quelle più leggere. Una volta accertato che il dipendente si rifiutava persino di svuotare cestini appare del tutto evidente che la situazione era non solo di un’assoluta gravità ma anche del tutto inemendabile, attesa alla pervicacia con la quale il lavoratore, era intenzionato a comportarsi nel futuro.”

Sul licenziamento ritorsivo

“Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte, il licenziamento ritorsivo costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta ingiustificata. Siffatto tipo di licenziamento è riconducibile, data l’analogia di struttura, alla fattispecie del licenziamento discriminatorio, vietato dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, della L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3- interpretate in maniera estensiva -, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all’art. 18 S.L. (cfr. Cass. n. 17087/2011). Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che sia, in particolare, è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418 c.c., comma 2, artt. 1345 e 1324 c.c.. La Corte di Cassazione, infatti, ha avuto occasione di ribadire che “il divieto di licenziamento discriminatorio … è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l’ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo” (così Cass. n. 6282/2011).

Deve essere il lavoratore a dimostrare la sussistenza della ritorsione

Ciò posto, va ribadita la regola che l’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio. Per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio e di rappresaglia per le rivendicazioni svolte abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un giustificato motivo di recesso, come quello dell’inadempimento qui allegato. In altri termini, ai fini dell’accertamento dell’intento ritorsivo del licenziamento, non è sufficiente la deduzione della sua attività di denuncia agli organi competenti per provocare ispezioni, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escludersi la finalità ritorsiva del licenziamento (così Cass. n. 14816/2005). Nel caso de quo il lavoratore non ha fornito alcuna prova né della sussistenza del motivo di ritorsione, né del suo carattere determinante della volontà negoziale, che anzi emerge essere assolutamente tutt’altro.”

Sulla proporzionalità della sanzione

“Innanzitutto, come già ricordato, il rifiuto di completare la prestazione lavorativa è reiterato e assolutamente ingiustificato; si tratta, inoltre, di una violazione grave in quanto l’organizzazione dell’attività didattica di un plesso scolastico così articolato e diviso per palazzine è basata sul rispetto, da parte di tutti i collaboratori scolastici, degli incarichi ricevuti, delle turnazioni e delle rispettive competenze, legittimamente affidate a ciascuno con ordine di servizio. Solo in questo modo è possibile gestire un istituto scolastico di quelle dimensioni, nel quale convivono moltissimi alunni, insegnanti e collaboratori a vario titolo: si richiede, pertanto, da parte di tutti e, in questo caso, del collaboratore scolastico, una leale collaborazione e quindi, non potendo la scuola permettersi che alcune classi vengano tenute, per tutta la durata dell’anno scolastico in condizioni igieniche pessime, si pretende legittimamente che il dipendente esegua quanto è lui affidato e che non esorbita certo per qualità (spolverare e spazzare i pavimenti) e per quantità (4 classi due aule e un corridoio) dalla normale prestazione esigibile da quella figura professionale.”

L’assenza di leale collaborazione legittima la sanzione disciplinare

“È proprio questa assenza di leale collaborazione (accompagnata da atteggiamenti assurdamente repressivi, tenuti al fine di giustificare la sua pretesa di svolgere esclusivamente compiti di sorveglianza che avrebbero esaurito l’intero tempo-lavoro) ad essere stata sanzionata, tanto più a fronte della chiara intenzione di proseguire con le stesse modalità. Nella scelta della sanzione proporzionata alla contestazione bisogna tener conto che il lavoratore era già stato colpito da vari rimproveri scritti che non avevano ottenuto alcun risultato, se non quello di vedersi ventilare una denuncia come possibili autori di mobbing. Il fatto che le sanzioni non abbiano fatto desistere il lavoratore da questo modo d’agire ma anzi lo abbiano ancor più convinto della bontà della sua posizione, significa che il lavoratore aveva deciso, come del resto ha dichiarato anche il suo difensore in sede di audizione disciplinare, di non osservare le indicazioni cogenti del datore di lavoro e pertanto certamente la sanzione appare proporzionata alla violazione e all’intenzionalità evidente della stessa. Deve considerarsi, sempre ai fini della proporzionalità, che il rapporto doveva proseguire per altri sei mesi soltanto, mesi nei quali la prestazione sarebbe stata comunque la stessa.”