Debutta la prova «doppia»: al classico il “latin-greco” non spaventa

da Il Sole 24 Ore

di Roberto Carnero

Oggi era il giorno più temuto dai maturandi, quello del secondo scritto, su materie diverse a seconda dei vari indirizzi. Il giorno più temuto, perché la seconda prova è quella maggiormente cambiata con la riforma dell’esame, che – ricordiamolo – ha esordito quest’anno. La novità principale è la forma “mista”, in virtù della quale in molte tipologie di scuole con il secondo scritto il Ministero ha deciso di testare non più una, come in passato, bensì due materie “di indirizzo”, cioè caratterizzanti quel particolare corso di studi: quest’anno, ad esempio, latino e greco al classico, matematica e fisica allo scientifico, prima e terza lingua al linguistico e così via.

Negli istituti professionali, la seconda prova, invece, si è sdoppiata in due parti distinte: una arrivata dal Miur e un’altra preparata questa mattina stessa dalle singoli commissioni, in dialogo con la parte ministeriale ma soprattutto sulla base dell’offerta formativa di ogni singolo istituto. Su quest’ultimo punto ci sarebbe molto da eccepire: ci era stato detto che l’abolizione (con la riforma dell’esame) della terza prova, preparata dalle diverse commissioni, era motivata dalla volontà di uniformare il più possibile l’esame a livello nazionale; mentre ora, così facendo, nei professionali si reintroduce un elemento localistico.

La staffetta Tacito-Plutarco

Dunque, al classico latino e greco. In realtà il brano da tradurre era uno solo, un testo latino, tratto dalle Historiae di Tacito, incentrato sulla morte di Galba, il primo dei cosiddetti “quattro imperatori”, succedutisi nel volgere di poco più di un anno, dal giugno del 68 al dicembre del 69 d.C.. Il testo da tradurre – non lunghissimo (neanche 10 righe) e, onestamente, neppure troppo difficile (nonostante la pessima nomea dello storico romano, presso gli studenti, per la generale osticità dello stile) – è preceduto da un “pre-testo” già tradotto, vale a dire una parte dell’opera posta prima del brano in latino: questo, evidentemente, per aiutare la contestualizzazione.

Segue un testo greco, accompagnato dalla traduzione in italiano, di un passo, più lungo, tratto dalla Vita di Galba di Plutarco, che il candidato è chiamato a confrontare con quello di Tacito. In calce ai due brani, tre quesiti a cui il candidato è chiamato a rispondere brevemente: in massimo 10/12 righe ciascuno oppure in un testo unitario di massimo 30/36 righe. I quesiti pertengono alla comprensione/interpretazione, all’analisi linguistica e/o stilistica, all’approfondimento e alle riflessioni personali.

Le domande proposte, nello specifico, appaiono tutto sommato abbordabili. La prima invita ad analizzare analogie e differenze nell’impostazione narrativa dei due storici. La seconda chiede di individuare nel testo gli elementi caratteristici della brevitas tacitiana e le altre peculiarità del suo stile. La terza, infine, solleva una questione di ben più ampio respiro, giacché si chiede di indagare sui punti di contatto e di distanza tra storiografia e biografia nelle due letterature («non solo in epoca imperiale», viene addirittura specificato), facendo riferimento – recita la consegna – alle «esperienze di studio e ad eventuali autonome letture e/o esperienze culturali»: il tutto in al massimo 10/12 righe! Davvero una missione impossibile.

Una prova più difficile?

Alla vigilia del debutto di questa nuova tipologia di seconda prova, molti ragazzi avevano espresso il timore che essa sarebbe stata più difficile rispetto alla vecchia, semplice traduzione di un solo brano (un anno era latino, un altro anno greco). I ragazzi hanno ragione a lamentarsi del fatto che sulle nuove prove non hanno avuto occasione di esercitarsi a dovere, perché i modelli ministeriali sono usciti molto tardi (poco prima di Natale), mentre la preparazione all’esame finale non si può improvvisare all’ultimo momento: è, al contrario, un lavoro che si svolge sul lungo periodo, cioè sull’intero triennio.

Tuttavia, per provare a tranquillizzare i candidati, si può dire che senz’altro la traduzione in sé avrà un peso minore nel voto finale, essendo previste anche domande in cui si ha modo di mostrare la propria cultura classica in senso più ampio, e non solo le competenze linguistiche e grammaticali. Del resto, già la riforma Gelmini (entrata in vigore, per le superiori, il 1° settembre 2010) aveva rinominato le materie: da “Lettere latine” a “Lingua e cultura latina”; da “Lettere greche” a “Lingua e cultura greca”. Evidenziando così il nesso tra lingua e civiltà.

Una nuova prova per una nuova didattica. È vero, poi, che ogni cambiamento, se serve a ripensare lo statuto di una disciplina e le metodologie impiegate per trasmetterla, può determinare inaspettate evoluzioni positive. Da un lato dobbiamo far capire agli studenti che la fatica del lavoro di traduzione dalle lingue classiche non è inutile o anche solo fine a se stessa: tradurre, al contrario, garantisce l’acquisizione di alcune competenze (scegliere i dati pertinenti, formulare ipotesi, fare inferenze, verificarle), che sono le stesse, tra l’altro, richieste dalla ricerca scientifica e dal problem solving. È un’attività, insomma, che insegna a gestire la complessità. E ciò va ribadito continuamente, in una società sempre più complicata come la nostra, dove peraltro i ragazzi tendono a rifuggire ciò che appare loro difficile perché ne sono spaventati.

D’altro canto, però, andrebbe forse superata l’eccessiva grammaticalizzazione dello studio del latino e del greco. Quando ci si avvicina a una lingua straniera (parlo di quelle moderne), la prima cosa che si impara è un certo numero di vocaboli di base, che aiutino a orientarsi nei diversi contesti comunicativi. Questo con il latino e il greco si fa molto poco, ritenendo, a torto, che il ricorso al vocabolario risolva ogni problema. Non è così; anzi, un uso scorretto del dizionario (magari per cercare, al quinto anno, le stesse parole che si cercavano il primo…) rischia di creare più dificoltà di quante ne elimini.

Ovviamente le lingue “morte” sono diverse dalle lingue “vive”, e dunque l’attenzione alla grammatica deve rimanere fondamentale. Ma lessico e regole grammaticali andrebbero contemperate in un modello didattico meno rigido e stantio, che dia più spazio e valore allo studio della cultura e della civiltà in senso ampio. Che è, in fondo, quanto chiedono anche i ragazzi. Se i cambiamenti introdotti nel nuovo esame di Stato potranno contribuire a consolidare questo processo di riforma dell’insegnamento, che essi siano i benvenuti.

*Roberto Carnero è professore a contratto di Didattica della letteratura italiana all’Università degli Studi di Milano e presidente di commissione d’Esame di Stato