Scuola che boccia: vale davvero di più?

da Tuttoscuola

di Giancarlo Sacchi

Nella storia della scuola dell’ultimo dopoguerra ci sono stati momenti in cui la ricerca didattica e l’innovazione hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo economico e sociale del Paese, inducendo anche l’opinione pubblica a guardare con fiducia alla qualità del nostro sistema scolastico per la sua capacità di costituire un “ascensore sociale” per tutti i giovani e aiutarli ad orientarsi nella società e nel mondo del lavoro, sostenendo allo stesso tempo le persone più deboli. Ma ce ne sono altri dove la carenza di orizzonti favorisce il dilagare di una sorta di “pensiero debole” sulla scuola che recupera le motivazioni nella selezione, capace di ristabilire, si dice, il valore del merito, lasciando da parte l’approccio ideologico della inclusione. La situazione attuale ha un carattere depressivo e dopo che la buona scuola si è ridotta ad un dibattito sulla situazione degli insegnanti sui media torna la questione delle bocciature.

Questi due elementi, merito e inclusione, non sono in contrapposizione, ma devono formare il carattere della scuola pubblica così come indicato dalla nostra Costituzione e ciò può avvenire attraverso il sapere, il soggetto che apprende e il contesto in cui si svolge l’azione formativa, che oggi è visto nella sempre più stretta relazione con il mondo del lavoro. Nell’azione dei docenti vi sono tendenze che fanno emergere uno o l’altro degli aspetti e ciò genera un dibattito che dovrebbe servire alla elaborazione del cambiamento ed invece spesso alimenta conflitti e speculazioni politiche.

Se al centro della didattica mettiamo il sapere si dovrà porre un limite per l’acquisizione accettabile o meno dei contenuti, se mettiamo l’allievo si tratta di incanalare le sue energie, poche o tante che siano, in una molteplicità di occasioni formative, se si pone il contesto, anche in considerazione della diversità degli ambienti di apprendimento, quello che conta sono le performance richieste dall’esterno e la capacità di una loro continua adattabilità. In un consiglio di classe tutto questo si trova in maniera superficiale e la mancanza di un coerente orientamento genera risultati disomogenei che si prestano anche a contestazioni sul piano legale.

La bocciatura rimane l’elemento della discordia ed anche in passato non era gradita, ma accettata non per il bene del ragazzo ma per la deferenza che la società esprimeva nei confronti dei docenti, cosa che oggi se vogliamo impaurisce i dirigenti scolastici, ma soprattutto fa lavorare gli avvocati per iniziativa delle famiglie. Vi sono docenti che in classe non riescono a lavorare a causa della condotta degli alunni e propongono la bocciatura come l’ultima speranza per riprendersi la dignità persa. È un’affermazione abbastanza diffusa, che deve però far riflettere sull’orientamento alla professione. Il risultato scolastico infatti è una cosa ed il modo con cui l’alunno lo consegue anche attraverso il comportamento in classe è un’altra. Un dibattito già affrontato ai tempi della promulgazione dello “statuto degli studenti e delle studentesse” che proponeva i diritti e i doveri degli studenti, proseguito con il “patto di corresponsabilità” che riguardava anche le famiglie. Ci si era in quell’occasione occupati anche delle sanzioni disciplinari ma in un’ottica di recupero motivazionale, mentre con il decreto Gelmini si torna ai provvedimenti dell’epoca fascista che agiscono sulla “condotta” in una forma solamente punitiva. È evidente che i due versanti hanno delle implicazioni, che già vengono contenuti nella valutazione dell’interesse e partecipazione nelle singole discipline; il così detto comportamento ha bisogno di una considerazione autonoma da parte del consiglio di classe, magari inserito nell’ottica di “cittadinanza e Costituzione”. Tale distinzione sarà sempre più efficace se i risultati verranno rilevati in modo diverso, come già accade, in differenti ambienti di apprendimento.

Chi pensa al sapere non ha problemi a selezionare: per chi esce dall’otium c’è il negotium, peccato che i contenuti non siano così chiari come un tempo, complice il progresso tecnologico; chi si dirige verso Giovannino, quello che c’è e non come noi vorremmo che fosse, deve anche pensare al latino, ma è il ragazzo che deve trovare il suo orientamento secondo una “selezione positiva”; è la motivazione che educherà al sacrificio. Chi vuole raggiungere delle competenze, cosa di cui oggi i docenti si dovrebbero occupare in prevalenza, deve necessariamente lavorare per progetti, i quali dovranno raggiungere risultati in modo progressivo in termini di crediti, che vadano oltre al titolo finale da conseguire, verso un apprendimento permanente, in relazione ai cambiamenti delle esigenze del lavoro e dello sviluppo sociale, pensando all’attualizzazione dei contenuti.

La percentuale di ripetenze, in assenza di criteri standardizzati, varia molto sul territorio nazionale, non solo verso il basso, ma anche verso l’alto. Se da una parte la selezione dovrebbe essere  il segno distintivo della meritocrazia (ma chi definisce il merito di chi?), dall’altra un certo abbondare di 100 e lode alla maturità viene dato come promozione sociale. L’OCSE ha più volte suggerito al nostro Pese la prevenzione dell’insuccesso, soprattutto attraverso l’innovazione e la creazione di nuove opportunità. In sede internazionale si pensa che la ripetenza sempre uguale sia un inutile dispendio di denaro da investire meglio in una più pertinente azione orientativa, anche prima che arrivi la sentenza di fine anno.

Le bocciature, quelle praticate che già non sono poche a livello statistico, o auspicate da chi pensa che il successo scolastico sia da confondere con un retaggio postsessantottino, sono diventate oggetto di sondaggi al posto di studi in sede pedagogico-didattica, come se non si trattasse di trovare metodi più efficaci di apprendimento, ma di ricercare un consenso da parte dell’opinione pubblica. Andando ad indagare in mare aperto è facile spuntare un giudizio abbastanza severo da parte di chi proietta sugli altri il proprio passato e non pensa al miglioramento pur necessario di certi strumenti per l’avvenire. Sembra altrettanto inefficace utilizzare tali indagini per ricattare i politici: la buona scuola ha dimostrato che non paga una captatio benevolentiae giocata solo sulla sistemazione dei docenti, senza avere una chiara visione delle prospettive verso le quali orientare il sistema.

Giocare sui termini, accoglienza o rigore, insinuando contraddizioni tra le scelte politiche in linea con il sentire comune ed i comportamenti permissivi dei singoli docenti non aiuta ad affrontare il vero problema: la qualità della didattica, che non va intesa nel senso di quantità di sapere tout court, ma che dia a ciascuno in modo appropriato ciò di cui ha bisogno per non far restare indietro nessuno. La funzione della scuola più che ad una visione astratta e ideologica di merito deve assecondare gli apprendimenti in relazione agli obiettivi da raggiungere.

Una discrasia esiste nel nostro ordinamento tra una valutazione delle competenze di ciascuno per l’attribuzione dei crediti progressivi spendibili nel tempo, nei percorsi formativi e nel mondo del lavoro, o misurabili nella media dei risultati ottenuti al momento degli esami. C’è da chiedersi infatti se ai futuri datori di lavoro sia più utile un portfolio dai quale estrarre la preparazione in modo analitico e polivalente, piuttosto che un titolo che segna una terminalità riassunta secondo indicatori numerici di difficile interpretazione. Forse davvero gli esami rimangono un retaggio gentiliano ed al posto del suddetto decreto Gelmini si potrebbero riportare alla luce le schede che ritraevano l’alunno ed il suo processo di apprendimento.