Ma l’Italia seleziona davvero i suoi insegnanti?

da la Repubblica

Tonino Ceravolo

Osservati dall’angolo visuale di chi presiede una scuola dell’Italia meridionale, i risultati annuali dell’Invalsi sulle competenze degli studenti hanno il sapore amaro di una disfatta. Se si assumono come esempio le classi quinte della scuola secondaria di II grado e i risultati in italiano, c’è di che essere sufficientemente sconfortati: il Piemonte e la Lombardia, così come le regioni del Nord Est (tranne la provincia di Bolzano), ottengono punteggi superiori alla media nazionale; le regioni del Centro riportano risultati in linea con la media italiana; punteggi “significativamente” inferiori a quelli medi sono ottenuti, invece, in Campania, Calabria e Sicilia. Né il quadro d’insieme varia prendendo in considerazione i risultati in matematica o in inglese: è sempre il Sud l’anello debole della catena, tanto da spingere gli estensori del “Rapporto prove Invalsi 2019” a osservare, commentando le prove di matematica, che «il regresso del posizionamento dell’Italia nelle classifiche internazionali quando si passa dalla scuola primaria alla scuola secondaria è dovuto ai bassi risultati del mezzogiorno e delle isole […]».

Insomma, per l’ennesima volta, le due Italie e la sensazione sgradevole, per chi opera nella scuola, di giocare il ruolo del curatore fallimentare. Non solo, ma se ampliamo lo sguardo e prendiamo come riferimento anche l’indagine internazionale Ocse – Pisa (l’ultima rilevazione è del 2015) ci accorgiamo che pure il Centro Italia, a eccezione che per la matematica, sconta un significativo divario, in questo caso rispetto alla media Ocse e relativamente alle abilità di lettura e alla literacy scientifica. Il quadro si definisce ancora meglio se si evidenzia come, in realtà, occorrerebbe almeno segnalare un terzo, un quarto e un quinto divario riguardo ai risultati scolastici, rispettivamente tra studenti dei licei (che ottengono risultati al di sopra della media) e studenti degli indirizzi tecnici e professionali, tra coloro che godono di uno status socio-economico- culturale medio-alto e chi ha un basso status, tra gli studenti immigrati e gli altri studenti.

In sintesi: una scuola che raggiunge pienamente i propri obiettivi solo in due specifiche aree del Paese (il Nord Est e il Nord Ovest), che contribuisce poco alla mobilità sociale, che tuttora – dopo decenni di riforme spesso sterili, che avrebbero dovuto potenziare, sulla carta, l’istruzione tecnica e professionale – circoscrive ai licei i propri risultati di “qualità”, che non costituisce, infine, reale occasione di integrazione per le giovani generazioni di immigrati. Detto lapidariamente: una gigantesca questione nazionale. A fronte di tutto questo, le risposte che provengono da più parti appaiono deboli, inadeguate a misurarsi con l’enormità del problema, che non si può certo risolvere non vedendo che si tratta di un fatto di “sistema”, che chiama in causa ogni singola tessera del puzzle, se sul serio si ha a cuore l’enunciata “centralità dello studente”. Alla quale, tuttavia, si risponde con i Pas (l’acronimo sta per Percorsi abilitanti speciali, per l’insegnamento si intende), qualcosa che, nelle intenzioni dichiarate, dovrebbe contribuire ad attenuare il problema del precariato nella scuola, ma che non affronta, se non nominalmente, la questione (tra le poche fondamentali per il futuro di questa istituzione) della formazione dei docenti.

A meno che non ci sia qualcuno davvero convinto che individuare come requisito di accesso all’abilitazione l’avere svolto “tre anni di servizio negli ultimi otto” possa essere, di per sé, un indice di qualità o che prevedere, per il successivo concorso straordinario riservato agli abilitati dei Pas, “una prova orale non selettiva” costituisca un modo per accertare le competenze disciplinari e metodologiche dei futuri docenti.

Paradosso dei paradossi: una scuola che, quotidianamente, valuta e seleziona i propri allievi rinuncia a valutare e a selezionare chi andrà in cattedra a svolgere tale delicatissimo compito. Beninteso, nulla di nuovo sotto il sole.

Fu il governo Letta a istituire, sei anni or sono, il primo ciclo di Pas e si deve a Matteo Renzi l’indiscriminato reclutamento dei docenti dalle cosiddette “graduatorie ad esaurimento”, con la conseguente immissione nei ruoli di un imprecisato numero di insegnanti i quali, per decenni, avevano dedicato ad altro la propria vita. “Scendendo per li rami” un secondo esempio: nelle estreme regioni del Sud è diventata buona abitudine (ben presto estesa anche al Nord) che i sindaci sospendano le attività didattiche a ogni stormir di fronde, poi gli studenti anticipano di uno o due giorni le vacanze di Natale, di altrettante giornate quelle di Pasqua e di almeno una settimana le vacanze estive, per non dire che partecipano quasi a ogni manifestazione che il comune di turno o la bocciofila del luogo organizzano (in mancanza di pubblico pagante). In questo modo, venti o trenta giorni di scuola vanno via e, moltiplicati per i tredici anni dell’intero ciclo, fanno, più o meno, un anno scolastico, mentre le indagini internazionali sottolineano (si veda la rilevazione Ocse -Pisa del 2012) che chi frequenta assiduamente la scuola ottiene un profitto migliore rispetto a chi non ha molta consuetudine con le aule.

Come dire che non esiste la scienza infusa e superinfusa o che chi si applica riesce meglio di un alunno pigro. Se, da ultimo e a proposito di responsabilità di “sistema”, si aggiunge che i percorsi facilitati, oltre che ai futuri insegnanti, si propongono pure agli studenti, forse per non appesantire le giovani menti in formazione, ci si può meravigliare dei risultati dell’Invalsi?

— L’autore è storico e dirigente scolastico