L’Educazione Civica

L’EDUCAZIONE CIVICA
Per accompagnare i giovani a saper scegliere con libertà e responsabilità

di Maria Grazia Carnazzola

Uno dei primi e più importanti compiti dei docenti, che spesso non viene considerato o viene sottovalutato, è quello di trasformare un’entità amministrativa, la classe, in un gruppo di apprendimento che condivide regole e valori, dove le persone riconoscono reciprocamente il ruolo e l’identità di ciascuno, riconoscendosi nel contempo come parte di quella comunità. Questo è il primo passo dell’insegnamento di Educazione civica, a scuola. Sentirsi parte attiva e costruttiva di un gruppo da cui si riceve e a cui si dà, dentro il quale hanno significato e senso le regole, i diritti e i doveri- declinati e no – significa porre le basi per lo sviluppo delle competenze di cittadinanza, sottolineando l’importanza e giustificando l’esistenza della scuola pubblica. Sullo sfondo la società dei consumi, dell’informazione compulsiva, del successo con le scorciatoie, dei percorsi facilitati, della mezza cultura di massa, del trionfo dell’incompetenza da cui si deve comunque partire, perché il mondo reale è anche questo.

Sono sostanzialmente d’accordo sul fatto che tutti debbano conoscere la Costituzione: conoscere i propri diritti e i propri doveri e i fondamenti che regolano il vivere sociale; anche questa è cittadinanza, ma non è solo questo. Se la cittadinanza può essere definita come  una condizione giuridicamente definita in un sistema di comportamenti codificati e regolamentati, fondati sul rispetto di sé e degli altri, delle regole delle comunità per un corretto sistema di relazioni, la cittadinanza attiva è qualcosa di più: è un atteggiamento culturale che porta con sé costrutti come impegno, libertà, scelta, bene comune; è senso di appartenenza e di democrazia, intesa come cultura e come etica prima ancora che di forma di governo. È la consapevolezza di dover dare senso alle relazioni tra le persone, è consapevolezza del diritto alla parità delle opportunità, dell’uguaglianza nel riconoscimento delle diversità. Un atteggiamento quindi.  E sappiamo quanto gli atteggiamenti siano costruiti, modellati e orientati culturalmente, a livello affettivo e cognitivo, e che si esprimono in termini verbali e in comportamenti.  

La cultura è “…l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo.… Complesso delle istituzioni sociali, delle attività artistiche e scientifiche…che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico”, così il Vocabolario Treccani. Basta l’insegnamento di Educazione Civica, dei contenuti a cui fa riferimento la L.92/20 agosto 2019 a realizzare tutto questo?

La scuola non è “culturalmente” indipendente.

La crescita umana, dall’infanzia in poi, è un formarsi continuo e ricorsivo di conoscenze, di modi di usarle, di modi di sentire, di pensare e di agire in cui non ci sono differenze tra quello che si impara informalmente e formalmente. Questo significa che gli uomini imparerebbero anche senza luoghi deputati alla formazione di conoscenze, valori, modalità di ragionamento? Non è facile rispondere a questa domanda. Viene subito in mente che la cultura dei giovani è ormai influenzata più dai sistemi di informazione e dai social network che dalla scuola; ma questa considerazione non assolve la scuola né la esime dalle sue responsabilità: proprio le conseguenze derivanti dalla massificazione del pensiero, dalla mezza cultura, dovrebbero portare a una seria riflessione sul senso e sui modi di interpretare la funzione formativa da parte della politica, della società e della scuola stessa. Mirare alla costruzione e all’esercizio di cittadinanze attive, come chiedono le direttive europee e la normativa italiana, come ad esempio la legge 92/2019, significa certamente promuovere l’informazione, ma significa anche, parallelamente, costruire strumenti per fruire consapevolmente e interagire attivamente con i media che filtrano e modellano la realtà. L’accesso al sapere deve essere sostenuto da solidi criteri di analisi, di discriminazione, di selezione, di elaborazione, cioè da uno strutturato pensiero critico. Le informazioni ci giungono da canali diversissimi e non ne è garantita né la scientificità, né la veridicità né l’attendibilità. Ma cosa si intende precisamente per pensiero critico e quali strategie didattiche lo promuovono?  Un compito a cui può assolvere solo la scuola pubblica è la promozione della consapevolezza della natura della conoscenza, della specificità dei saperi formali e dei diversi valori di verità che veicolano. La conoscenza scientifica è cosa diversa dall’opinione; l’opinione fondata su evidenze è altra cosa rispetto all’opinione arbitraria; il parere interessato e strumentale non è la stessa cosa del parere disinteressato. Questo dovrebbe insegnare la scuola, per esempio non proponendo i saperi come fossero verità assolute e definitive. Le cose non sono vere perché le ha dette il professore, o sono scritte sul libro, o si sono trovate in Internet, o le ha dette la televisione o il politico di turno che, giocoforza, portano una visione di parte. Servono il confronto dei punti di vista, dei risultati, dei processi…La scuola è chiamata a praticare e a insegnare il principio del confronto attraverso il suo specifico, interpretando il significato scientifico-disciplinare dei saperi, ad esempio attraverso la riflessione epistemologica e metodologica, il significato pedagogico-didattico, nella costruzione degli ambienti di apprendimento e il significato sociale analizzando contesti e problemi potenzialmente conflittuali. Quanto detto può sembrare si rivolga esclusivamente alla sfera cognitiva delle persone, ma se si guarda meglio, e più a fondo, si può vedere come un solido pensiero critico e una corretta educazione alla parzialità possano influire sulla sfera emotivo-affettiva e relazionale, sulla capacità di vedere la parzialità delle proprie credenze e regole, dei propri valori, riconoscendo, nel contempo, le parzialità degli altri come perfettamente legittime.

I ragazzi dovrebbero essere aiutati a capire che le verità non stanno da una parte sola, che le ragioni sono tante e non sempre conciliabili; che bisogna imparare a decidere da che parte stare sulla base di valutazioni e di principi che non sono i soli ad essere giusti. Questo dovrebbe fare la scuola pubblica, utilizzando la ricchezza culturale che deriva dal suo pluralismo, superando la palude del qualunquismo che, evitando ogni ombra di conflitto, perde ogni occasione di esperienze di tolleranza. Non si può sempre semplificare e offrire soluzioni edulcorate e neutre. La vita, fuori dalla scuola, non è così, non sarà così il futuro; se la scuola deve aiutare a capire il mondo, lo faccia seriamente. Non bastano gli slogan: mettere lo studente al centro, lo studente protagonista, promuovere competenze di cittadinanza e via di seguito. In un percorso veramente formativo lo studente si pone al centro da solo; se l’ambiente di apprendimento è ben costruito, se gli adulti sono punti di riferimento veri e sono riferimenti con cui confrontarsi e misurarsi, anche limiti quando serve, gli studenti colgono il senso del loro essere lì in quel momento, di ciò che si chiede loro di fare, anche della fatica del fare.

La legge c’è, tutto a posto dunque…

Forse no. Le leggi delineano il cambiamento, non lo attuano. Sono le persone-docenti, dirigenti e personale tutto- che dentro le scuole lavorano che agiscono e concretizzano il cambiamento. E per farlo hanno sì bisogno di indicazioni certe e non contradditorie, ma hanno bisogno soprattutto di spazi di riflessione e di tempi di attuazione che consentano di ripartire da dove ciascuna scuola è effettivamente giunta nel percorso di cambiamento. Sì perché i cambiamenti richiedono pianificazione, riflessione, integrazione/modificazione dell’esistente, monitoraggio, valutazione, implementazione, se si vogliono evitare l’improvvisazione e la discrepanza, o addirittura la contraddizione, tra dichiarato e agito. E questo richiede un giusto tempo per diventare patrimonio condiviso di una scuola. G. Ferroni metteva in guardia dall’effetto perverso “della inconsapevole subordinazione della scuola alla politica” (La scuola sospesa, Einaudi, Torino 1997, pp3-10). Spesso la scuola viene percepita come il luogo dei compromessi, delle resistenze ideologiche, degli interessi corporativi. In parte può essere vero, ma la percezione sociale delle questioni scolastiche è di fatto condizionata più dalle contrapposizioni partitiche che non dal dibattito culturale e pedagogico e dall’operato reale di chi vi lavora. La scuola è un bene pubblico e come tale deve essere pensata, gestita e considerata. Un bene pubblico prevede mete condivise che trascendono l’interesse individuale, o di parte, e privilegia l’interesse collettivo.

Se davvero si vuole dare corpo a una scuola che raccolga le sfide della contemporaneità e dia respiro al futuro, c’è bisogno di un patto sociale, della condivisione politica dei principi e dei paradigmi che connoteranno il sistema scolastico che sarà, gestito su una linea di continuità dall’alternanza degli schieramenti partitici, fino a che saranno proficuamente praticabili. Un patto costruito partendo dai problemi e dal confronto sull’efficacia delle possibili soluzioni: partendo dai valori di riferimento-i pilastri ideali su cui si regge la coesione sociale-, passando per i bisogni e per i problemi, per finire con le risposte da dare.

La conoscenza della Carta costituzionale…a partire da tale conoscenza…si potrà avviare la necessaria riflessione sui concetti di democrazia, legalità, senso di responsabilità.” Così un passaggio della bozza delle Linee Guida per l’insegnamento di Educazione civica inviata al CSPI per il previsto parere.

Mi auguro che Educazione civica porti la scuola a focalizzare questi aspetti, a riflettere e a far riflettere sull’uso e sulla manipolazione di parole come democrazia, bene comune, libertà, popolo, responsabilità. E ancora, rispetto, vergogna, scelta… per evitare che si svuotino di significato e diventino slogan. Ma che si rifletta anche su espressioni come “… il tempo dell’odio deve finire…” pronunciata da un politico, perché la democrazia si fonda sulla discussione e sul confronto critico di istanze anche contrastanti, sull’argomentazione, non sulla sfera dei sentimenti. E ancora si rifletta e si faccia riflettere sul fatto che la libertà dei cittadini “non è libertà dalle leggi, ma una libertà grazie e in virtù delle leggi…” (M.Viroli).

La padronanza delle parole sta alla base dell’uguaglianza delle opportunità e quindi della democrazia: la padronanza lessicale e linguistica hanno una profonda influenza sull’apprendimento, lo sappiamo tutti. E sappiamo anche che le parole fondano la democrazia, attraverso la contrapposizione prima e la mediazione poi di opinioni che circolano attraverso le parole. E più parole si posseggono più la mediazione è possibile. Ma occorre che il parlare sia corretto, che le parole siano aderenti ai fatti e alle cose e non, come riteneva Humtpy Dumpty di “Attraverso lo specchio”, al volere di chi comanda. La scuola può fare questo occupandosi del suo specifico, offrendo ai ragazzi contenuti selezionati, tratti dai saperi disciplinari, come i romanzi di Orwell, passi scelti di Wittgenstein, Klemperer, Primo Levi, Dante, Platone, Cicerone, Camus, Einstein, Pauli, Jung, Morin…come strumenti per riflettere su ciò che accade: il presente deve essere reso conoscibile.

Può essere l’occasione per una rilettura delle Indicazioni Nazionali e delle Linee Guida, e di tutte le norme che si sono susseguite, per trovare quelle trasversalità che permettono una finalizzazione unitaria dell’insegnamento allo sviluppo delle competenze disciplinari, trasversali e di cittadinanza, focalizzando l’attenzione sull’uso cognitivo della lingua, se è vero che la semplificazione della lingua, unita all’uso delle nuove tecnologie, può diventare un potente mezzo di disinformazione. Potranno essere utili “filoni”  di riferimento per la progettazione dei Consigli di classe argomenti quali “ le applicazioni delle scienze, tra libertà e responsabilità”, “lo sviluppo dell’informazione e i mutamenti della percezione della realtà”, “la formazione nel mondo di oggi”, “le donne e gli uomini nella realtà di questo tempo”, “ il governo democratico delle società e lo sviluppo dell’umanità”, “la crescita e la globalizzazione”…, per fare alcuni esempi riferiti a quanto contenuto nell’Agenda 2030. 

Si potrà così discutere con i ragazzi di concetti come crescita, sviluppo, sottosviluppo e constatare che forse sono concetti da ridefinire. Si potrà ragionare sulla diseguale distribuzione della ricchezza e sulla differenza che c’è tra dono e carità, sullo sviluppo sociale presentato come se fosse un processo naturale mentre non lo è, sui diversi significati del termine democrazia per evitare il fallimento dei governi e degli uomini…tenendo fermi gli impianti e i saperi disciplinari quanto mai fondamentali.

BIBLIOGRAFIA

L. 20 agosto 2019, n.92;

Educazione Civica, Linee guida bozza;
Raccomandazioni UE  22 maggio 2018;

 Risoluzione ONU 25/9/2015 – Agenda 2030;

R. Bortone, articoli vari;

P. Watzlawick, La realtà della realtà, Astrolabio 1976

L. Carrol, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, Mondadori, Milano 1978;

G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 1973;

V. Klemperer, Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, Mondadori, Milano 2000;

C.Sini, Del viver bene, Jaca Book, Milano 2011; M.Viroli, La libertà dei servi, Bari, Laterza, 2010.