E noi insegnanti che facciamo il venerdì?

da la Repubblica

di Franco Lorenzoni

Gli studenti scesi in piazza che chiedono di capire e cambiare, confrontandosi con un problema urgente e drammatico, offrono un dono a noi insegnanti che non possiamo non cogliere, perché la loro rivolta ci interpella.

Con i loro cortei, giovani e giovanissimi si rivolgono alla politica perché pretendono risposte immediate. La scuola non ha risposte da offrire, ma è il luogo dove moltiplicare le domande e renderci conto che il surriscaldamento globale può essere affrontato solo educandoci tutti al paradigma della complessità. E, soprattutto, come ci ricorda con lucida insistenza Greta Thunberg, che capire è cambiare. Se non cambiamo, vuol dire che non abbiamo capito.

Ci sono giganteschi interessi economici in gioco, insieme ai rapporti di forza tra gli stati e alle leggi spesso inique del mercato. Per comprendere le dinamiche in campo c’è dunque bisogno di storia, tanta storia, anche quella trascurata che riguarda lo sfruttamento dell’energia e i contraddittori processi di decolonizzazione. Se vogliamo giocare con le discipline, è evidente che abbiamo bisogno di chimica e fisica e matematica e statistica. Abbiamo bisogno di ripensare radicalmente l’insegnamento della geografia, materia sotto attacco negli ultimi anni eppure fondamentale, insieme alla demografia, se vogliamo leggere le sfide del futuro in un mondo in cui si moltiplicano i “profughi eterni”.

La scuola è strutturalmente diacronica e credo non debba mai appiattirsi sul presente, inseguendo modi e mode dell’oggi, ma offrire piuttosto la possibilità di incontro con altre epoche e sguardi sul mondo inusitati, che ci arrivano dalla scienza, dall’arte e da espressioni culturali di ogni luogo e tempo.

Ma oggi, insieme al passato, gli studenti ci implorano di studiare il futuro, argomento che sembra interessare ad assai pochi nel Paese più anziano del mondo.

Ragazze e ragazzi ci pongono domande legittime, cioè domande alle quali nessuno ha risposte certe da dare, e questa sfida sta cominciando a coinvolgere centinaia di docenti. Si moltiplicano appelli e siti a livello internazionale e locale di Teacher for future e, in Italia, il tavolo Saltamuri, che riunisce 133 associazioni impegnate in campo educativo, propone di dedicare almeno un venerdì al mese alla questione perché gli aneliti dei più sensibili diventino argomento urgente per tutti.

Dobbiamo metterci a studiare noi docenti per primi e provare a capire come si può affrontare insieme la questione dei cambiamenti climatici: con quali strumenti e consultando quali materiali, utilizzando quali saperi e con quale metodo di ricerca.

Non basta solo il ricorso alle discipline scientifiche, perché in ballo ci sono i nostri comportamenti, dunque il nostro immaginario, insieme al necessario confronto tra opinioni diverse. Dovremo dunque interrogarci sull’etica, praticare il dialogo, incrociare la filosofia.

Le idee in campo vanno da chi nega il problema, come i potenti Trump e Bolsonaro, a chi afferma che «l’ambientalismo, senza una critica radicale del capitalismo, è solo giardinaggio», come sosteneva Chico Mendes, ucciso perché difendeva alberi e popoli dell’Amazzonia. Un’ottima occasione, dunque, per metterci in gioco davvero e discutere, con dati alla mano, se lo sviluppo sostenibile sia solo un ossimoro e cosa intenda fare chi parla di green new deal.

Nella manifestazione di Roma del 27 settembre un cartello sintetizzava in modo icastico il vasto programma che attende i ragazzi e tutti noi: – EGO + ECO.

Contrastare decenni di narcisismo di massa richiede a ciascuno trasformazioni profonde. Trent’anni fa Alexander Langer propose il tema della conversione ecologica, evocando una trasformazione che doveva intrecciare la necessaria riconversione energetica, agricola, urbanistica e industriale con una più profonda trasformazione delle nostre relazioni con la natura, il pianeta e l’iniqua distribuzione delle ricchezze. Nel cercare di individuare un’etica all’altezza di una sfida ecologica che sentiva ineludibile, proponeva di applicare una “regoletta kantiana” così formulata: ciascuno di noi dovrebbe limitare il suo consumo di risorse ed energia, adeguandolo alla possibilità che i sei miliardi di abitanti del pianeta possano consumare altrettanto. Siamo arrivati a essere oltre 7,7 miliardi noi inquilini della Terra e calcolare quali cambiamenti nei consumi e nel nostro stile di vita comporterebbe il prendere sul serio quella “regoletta”, potrebbe costituire un ottimo esercizio per avvicinare al nostro sentire le condizioni di vita materiali di miliardi di nostri coinquilini, comprendendo che già oggi, oltre la metà delle migrazioni forzate di intere popolazioni, sono dovute a fattori climatici e ambientali.

È a scuola che Greta ha visto il documentario con l’isola di plastica più vasta del Messico galleggiare nel Pacifico e non se l’è più tolta dalla testa. È a partire da quella ferita che ha affinato la sua particolare sensibilità che la rende capace – a detta di suo padre – «di vedere l’anidride carbonica a occhio nudo».

Ma poiché per trasformarci abbiamo bisogno di scienza e statistica, ma anche di simboli e immaginario, dunque di poesia, musica, teatro e letteratura, potremmo ricordare le profetiche parole dal dottor Astrov nello Zio Vania, che Anton ?echov fece risuonare in un teatro di Mosca 120 anni fa: «Le foreste si fanno sempre più rade, i fiumi si seccano, la selvaggina si è estinta, il clima è guastato, e di giorno in giorno la terra diventa sempre più povera e più brutta. Tu mi guardi con ironia (…) ma quando passo vicino alle foreste contadine che ho salvato dal taglio fraudolento, quando sento stormire la mia giovane foresta piantata dalle mie mani, io mi accorgo che il clima è un poco anche in mio potere e che se fra mille anni l’uomo sarà felice, ne avrò un poco anch’io il merito».