Evitare i proclami e procedere con cognizione di causa

Evitare i proclami e procedere con cognizione di causa

di Maria Grazia Carnazzola

  1. Incipit

“Con tutto ciò, io sono convinto che i numerosi mutamenti introdotti dall’arbitrio dell’epoca presente in questa scuola, al fine di renderle più “attuali”, non sono in buona parte altro se non linee contorte e aberrazioni, rispetto alla nobile tendenza primitiva della loro costituzione (…); gli istituti presenti, per contro, pretendono per lo più di essere unicamente “moderni” e “attuali”. (F. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, pag.5).

Prescindendo dalla specificità dei tempi e dei contesti, questa affermazione invita a riflettere sui compiti a cui deve assolvere la scuola e sui modi in cui li deve assolvere.

Tema di assoluta attualità in questo nostro tempo di difficoltà educativa. Le norme, i disegni di cambiamento del sistema scolastico, le riforme- vere o presunte- quali ragioni e quale senso hanno? Quali ragioni dietro le ripetute “esternazioni” sulla priorità dell’aumento delle retribuzioni per i docenti (cosa quanto mai auspicabile) a cui far fronte con tasse aggiuntive (cosa quanto mai deprecabile per il modo). Per non dire delle assunzioni dei docenti “per anzianità” anagrafica.  Il centro della scuola non sono i docenti, senza i quali peraltro non potrebbe esistere, ma sono i bambini e i ragazzi che hanno diritto a un servizio di alta qualità, fondamentale per il loro futuro.  Se la scuola è necessaria per contribuire allo sviluppo delle persone/cittadini, ha bisogno di professionalità forti e le professionalità forti si individuano con i concorsi (ordinari), si sostengono con la formazione/aggiornamento continui in servizio e con il riconoscimento del merito professionale. Nessuna di queste cose, sta realmente e concretamente nelle pratiche dell’Amministrazione. Che senso hanno allora proclami e provvedimenti che prevedono cambiamenti radicali che più che cambiamento generano confusione? Bisogna che si scelga se insegnare ciò che è essenziale o ciò che è accessorio, si scelga cioè la forma della conoscenza che si vuole promuovere. L’impressione è che a volte si scelga l’accessorio, il secondario, il “moderno”: basta che sia nuovo, che stupisca. E non sempre poi si verifica se la novità è reale o apparente e se e come ricada sugli aspetti fondamentali dell’esistenza: i sistemi dei valori, i fondamenti e le espressioni culturali, le stratificazioni relazionali, i processi di costruzione delle identità personali.

2.Il tempo della complessità.

Se è vero che tutte le epoche sono complesse, è anche vero che lo possono essere in misura maggiore o minore. La contemporaneità fa registrare un livello di complessità altissimo, determinato dalla rapidità con cui variano gli scenari sociali, economici, culturali. La cultura contemporanea, quella dei social network, dei giornalisti improvvisati, degli opinion leader da salotto televisivo, dei politici multitasking, di chi pensa che parlare più forte è avere senz’altro ragione, per il solo fatto di dire forte-non sempre chiaro-, veicola la convinzione che ogni opinione valga uno, indipendentemente dalla competenza di chi lo dice e dalla fondatezza di ciò che viene detto.

Questo è vero, e deve esserlo, nella cabina elettorale, non può esserlo sempre nel dibattito culturale. Una cultura siffatta ha in sé tre caratteristiche su cui è urgente che la scuola, istituzionalmente deputa a farlo, rifletta: l’inadeguatezza degli strumenti a disposizione in relazione alla complessità della realtà da comprendere; la generale non consapevolezza di tale inadeguatezza; l’utilizzo delle tecnologie e dei social come conferma del proprio esistere e della fondatezza delle proprie e altrui opinioni.

La pervasività della rete, insieme strumento di emancipazione e di massificazione, chiama in causa la scuola ancor più direttamente sul modo di intendere e gestire il proprio ruolo formativo. I social network e i sistemi di informazione amplificano il dislivello tra chi possiede gli strumenti intellettuali e culturali per fruire delle informazioni e chi ne è fruitore passivo e inconsapevole. I ricchi di informazioni non sono necessariamente ricchi di competenze. Facciamo fatica a prendere atto di ciò che sta realmente succedendo, del diffuso rifiuto della conoscenza. I mezzi di comunicazione non sono trasparenti, non presentano la realtà dei fatti come davvero appare. Ogni media presenta il reale attraverso il suo linguaggio, le sue modalità espressive, i suoi interessi e ci obbliga a guardare con ritmi, angolature e prospettive di altri. Il nostro occhio, il nostro orecchio, le nostre emozioni sono vincolati a quelli di chi racconta. Ciò non è male, se ne siamo coscienti, se lo sappiamo vivere e affrontare con pensiero critico e consapevolezza.

3.La conoscenza: il senso e il significato.

I saperi relativi alle scienze e alle discipline umanistiche sono prodotti della mente umana, del diverso modo di usarla, e le opere che ne conseguono (teorie scientifiche, romanzi, dipinti, tecnologie…) sono rappresentazioni di mondi possibili. In questo senso non esistono teorie o rappresentazioni vere o false in assoluto, ma teorie o rappresentazioni vere o false in uno dei mondi possibili. Questo dovrebbe far capire la scuola quando presenta i prodotti della cultura attraverso le discipline. Come sosteneva Bruner “comprendere la condizione umana, capire quali sono i modi in cui gli esseri umani producono i loro mondi (e i loro castelli) è molto più importante che stabilire lo status ontologico dei prodotti di tali processi”. I saperi, tutti, esistono e trovano la loro collocazione nel mondo oggettivo della cultura, quello che Popper chiamava il Mondo 3.

Per comprenderli non basta l’informazione, un solo punto di vista, una schermata, un solo libro. Omero ci ha raccontato di un ciclope che aveva un occhio solo…E ci ha raccontato anche delle sirene, del loro canto, della bellezza della loro voce: è la voce che ammalia, sempre, anche nel tempo di internet. Per comprendere bisogna riflettere; e riflettere significa rimandare qualcosa a qualcuno o “l’atto con cui l’uomo considera le sue stesse operazioni” (Abbagnano, Dizionario di filosofia). Qui si pone la differenza tra intellettualizzare e pensare: intellettualizzare gli apprendimenti a volte impedisce di pensare e di giungere alla conoscenza. La conoscenza, al contrario delle conoscenze, è personale, intransitiva. Rimanda alle riflessioni-integrazioni-mediazioni che integrano i desideri, i riti, i miti, le domande di ciascuno di noi. Va in profondità.

La profondità non si vede e non si sente, qualche volta la immaginiamo, altre volte la percepiamo, ma sappiamo che c’è. La profondità sta nell’unicità, nella differenza, nella irripetibilità dei significati e, perciò, dei simboli e dei segni. La differenza tra conoscenza superficiale e conoscenza profonda delle cose, dei fenomeni, di se stessi sta proprio qui: sotto la superficie, dove è necessario andare… Ogni ricerca è generata dal desiderio di conoscere e può procedere in senso orizzontale, verso il contesto complessivo, il significato dell’insieme. Oppure può procedere in verticale cercando il senso del particolare che, magari, non si vede ma che genera il visibile. Ed ecco, allora, che ogni processo di conoscenza deve contemplare e contemperare i due movimenti.

La ricerca parte dalla superficie, da ciò che appare, ma può andare sotto la superficie, a profondità sempre maggiori. Per poterlo fare bisogna però utilizzare metodi e strumenti adatti, ma, prima ancora, avvertire una dissonanza, il premere di una domanda che contenga in sé l’attrazione per una risposta, necessaria ma sempre provvisoria.

In questo ritmico alternarsi di domanda e di risposta sta ogni percorso di ricerca: da domanda nasce domanda, fino ad arrivare alle domande che, forse, non possono avere una risposta, almeno non nell’immediato.

 4.Scienza, tecnica, o poesia?

 Leonardo Sinisgalli ha scritto nel 1951. “La Scienza e la Tecnica ci offrono ogni giorno nuovi ideogrammi, nuovi simboli, ai quali non possiamo rimanere estranei o indifferenti (…) senza il rischio di una mummificazione o di una fossilizzazione totale della nostra coscienza e della nostra vita. Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti (…). Lucrezio, Dante e Goethe attinsero abbondantemente alla cultura scientifica e filosofica dei loro tempi senza intorbidare la loro vena. Piero della Francesca, Leonardo e Durer, Cardano e Della Porta e Galilei hanno beneficiato di una simbiosi fruttuosissima tra la logica e la fantasia”. Scienza e poesia rappresentano l’uomo, la comunità, la civiltà: rappresentano entrambe la libertà di fare e di rifare, di pensare e di ripensare, di comporre e di scomporre le conoscenze, immaginando il già immaginato, di dire il già detto in un altro modo.

La relazione scienza/poesia è uno degli esempi, uno dei più interessanti e pregnanti, di quanto detto. Basti pensare a G. Leopardi, alla Ginestra o a L’Infinito, e a come segnalano, con grande maestria poetica – e con altrettanta profonda conoscenza scientifica – la labilità dei confini tra scienza e poesia. Labilità e incertezza riproposte, in tempi e da punti di osservazione diversi, anche F. Nietzsche, G. Bachelard e da I. Prigogine che tentò di costruire un ponte tra scienza e umanesimo.

5.La conoscenza e la sua natura.

Anche Jung ripropone la critica dell’intellettualismo, cioè dell’ingenua convinzione della preminenza dell’intelletto sulle altre strutture e funzioni della psiche, in particolare delle strutture affettive ed emotive. La funzione dell’intelletto rimanda necessariamente e in continuazione ai sensi, alle intuizioni, alle emozioni, ai sentimenti. Questa riflessione sui limiti dell’attività razionale conferma, tra l’altro, la grande attualità del pensiero di Jung e la sua appartenenza al mondo contemporaneo. La conoscenza è tale quando è in grado di accogliere il dubbio, il significato e il senso del limite, la propria radicale messa in crisi per una ulteriore e inesauribile, ricerca. Questa considerazione vuole sottolineare che ogni sapere, e le relative pratiche, vanno ripensati, ogni volta, in relazione alla presenza dell’osservatore/attore.

Ogni disciplina, e quindi, ogni conoscenza, che non voglia essere arbitraria e acritica, è da ritenersi complessa, con i vincoli, la parzialità e storicità del proprio porsi in un contesto e in un tempo dati. Questo è tanto più vero in questa nostra società di massa in continua e rapida trasformazione, dove la diffusione delle tecnologie, la relativizzazione dei valori, il mutare del lavoro e delle professioni, i nuovi paradigmi scientifici si confrontano con un diffuso e crescente disagio esistenziale. Disagio che richiede conoscenze e strumenti di accesso al sapere, a livello cognitivo; pensiero etico, dialettico e propositivo, a livello sociale; la costruzione di identità solide, che sappiano gestire l’affettività e le relazioni del vivere quotidiano, a livello esistenziale.

È la stessa posizione che troviamo oggi all’interno del dibattito sul ruolo della formazione delle persone e dei cittadini e, quindi, all’interno del dibattito sul ruolo e sulla funzione della Scuola, del ruolo delle conoscenze e della conoscenza, del soggetto che apprende, del rapporto insegnamento/apprendimento, del significato dell’espressione “porre al centro l’allievo”(al centro di cosa poi?)…Le conoscenze della realtà, della vita, le mappe scientificamente esatte che rappresentano la realtà e la vita, non sono  nè la realtà nè la vita.  La scuola ha il compito, appunto, di educare alla conoscenza parziale, sottolineando la pluralità dei punti di osservazione, dei metodi di indagine e di soluzione dei problemi, di educare a considerare le conoscenze scientifiche come storicamente date, da sottoporre a falsificazione e da integrare con i saperi derivanti da altri punti di osservazione cioè da altre discipline. La prospettiva trans-disciplinare potrebbe offrire un forte contributo alla riflessione che qui si sta facendo. Basti pensare al concetto di “sistema, di “funzione unificante” e di “causalità circolatoria” che Morin utilizza per giungere al concetto di complessità auto-organizzata e al superamento del rapporto deterministico causa-effetto tra eventi e relazioni. “…detto altrimenti, un tutto organizzato, un sistema, produce e favorisce l’emergenza di un certo numero di qualità nuove che non erano presenti nelle parti separate”. (E.Morin, La réforme de pensée, L’Art Video 1980/1999,pag.354). O alle teorizzazioni di Basarab Nicolescu o di René Berger o, ancora, ai contributi di Piaget che, tutte, da punti di partenza diversi e con percorsi diversi hanno segnalato la necessità di considerare l’uomo in tutta la sua complessità interna e nella complessità dell’interazione con l’ambiente esterno, alla funzione unificante che emerge da questa relazione che non è solo la somma degli elementi in gioco. 

Cosa sia la conoscenza, come si costruisca, quale sia il suo peso nel vivere quotidiano di ciascuno, sono domande centrali e ineludibili, soprattutto in società democratiche dove i valori, che sono ancorati e declinano i bisogni, dovrebbero essere i traguardi ideali che orientano l’azione di ciascuno, in un confronto dialettico che supera e compone le contrapposizioni.

Servono idee nuove per costruire una nuova visione del mondo, della vita, delle storie personali e sociali, di nuovi percorsi della conoscenza. Ma le idee nuove non vengono dal nulla: sono il risultato di idee già esistenti e che possono venire da lontano, sono la superficie che poggia su millenni di pensiero e di pratiche profondamente stratificati. Jung ha proposto una visione nuova dell’uomo, del mondo, della conoscenza, perché il suo tempo di questo aveva bisogno.

Le idee sono figlie del loro tempo e rappresentano risposte a problemi reali, alle domande che la realtà, la vita qui e ora pone. Ma, condividendo con Carlo Sini, la vita e l’esistenza si danno in un tempo e in uno spazio e le risposte si modificano a seconda della conoscenza praticata in quel tempo e in quello spazio. La sostanza no. Il mondo e la vita sono una serie aperta di eventi e di processi interrelati di cui il rischio, l’incertezza e la precarietà fanno parte, esattamente come la stabilità e la permanenza. La conoscenza può rappresentare la forma più efficace per la soluzione dei problemi reali che, via via, si pongono e dove giocano un ruolo parallelo l’abitudine e le attività mentali, collegate alle valutazioni e alle scelte personali.

Centralità della cultura, quindi, che è altro rispetto all’erudizione. La cultura di un popolo contiene l’idea di uomo, di mondo, di realtà, di scuola, di società. E in questa bisogna insegnare/imparare a saper vivere in questa nostra civiltà. Ma come si impara a vivere? Interrogandosi sulla realtà, sul mondo, la verità, la società, la mente, l’umano. E questo è il compito della filosofia, o lo era prima che diventasse, come ebbe a dire Hegel, “… la fonte di reddito dei professori di filosofia”. C’è bisogno di ragione e di passione; solo con passione la complessità e l’imprevedibilità del vivere consentiranno di trovare un punto da cui ricominciare. Solo con passione potremmo cercare le risposte  del come il progresso materiale abbia potuto occultare il senso del limite e della morte, del come la solidarietà sia diventata individualismo; del come la libertà, l’autonomia, la democrazia, la responsabilità abbiano generato egoismo, prevaricazione, avidità, solitudine, angoscia: il ben-essere ha dentro di sé il mal-essere e la composizione dei due opposti non è possibile a livello razionale, deve essere cercata e trovata a livello esistenziale, coniugando il “futuro prossimo con l’avvenire”, come chiede M. Augè.

6.Per concludere

Da sempre la parte adulta dell’umanità si assume il compito di insegnare a vivere ai minori. Perché le giovani generazioni imparino a vivere, sostiene Morin nel libro “Insegnare a vivere”, occorre una radicale riforma del pensiero e dei modi con cui si strutturano e si utilizzano i saperi disciplinari, collegando l’apprendimento alla “ricerca della propria felicità”. E questo può avvenire solo se le conoscenze portano a riflettere sulla natura della conoscenza, che rende capaci di cogliere i problemi globali che inscrivono le conoscenze parziali nel pensiero complesso. È il pensiero complesso che compone e collega anche posizioni e idee che si rigettano a vicenda e fa dialogare le due culture, quella umanistica e quella scientifica, rendendo possibile il rilancio etico dell’umanità, comunità planetaria che deve tendere a una cittadinanza terrestre.  “La scuola attualmente, soprattutto per gli adolescenti, non fornisce il viatico benefico per l’avventura della vita di ciascuno (…) non fornisce le difese contro l’errore, l’illusione, l’accecamento. (…) Insegna solo in modo molto lacunoso a vivere, fallendo in ciò che dovrebbe essere la sua missione essenziale” (pag. 36-37). Forse Nietzsche intendeva proprio questo, con le dovute sottolineature di contesto e di linguaggio, quando scriveva “In base a questa tendenza, la cultura sarebbe pressappoco da definire come l’abilità con cui ci si mantiene “all’altezza del nostro tempo” (…). Il vero problema della cultura consisterebbe perciò nell’educare uomini quanto più possibile “correnti”, nel senso in cui si chiama “corrente” una moneta (pag.31). La riforma del pensiero deve cominciare dalla scuola e continuare dentro l’università, rinnovando i saperi, i valori e la cultura attraverso percorsi trans-disciplinari che si occupino del vivere presente, ma si preoccupino anche dell’avvenire. Con curiosità e con passione, facendo dell’apprendimento scolastico un esercizio di vita responsabile. Per questo ci vogliono insegnanti che hanno imparato ad insegnare.