Scuola della ricerca, Berlinguer: ‘Rendere gli studenti protagonisti dell’apprendimento’

da Tuttoscuola

Serena Rosticci

«La scuola che sogniamo. Ormai la maggior parte delle persone scrive “sognamo”, senza “i”. Voi no, bravi». Luigi Berlinguer, classe 1932, ministro dell’Istruzione dal 1996 al 2000, ci accoglie nel suo studio di via Ippolito Nievo con una piccola lezione di grammatica. Non fatichiamo a percepire la sua passione per i dettagli, per la lingua, per la scuola. Ci chiede di parlargli della nostra idea, de “La scuola che sogniamo” («Un po’ ambizioso, non trovate?»), ma gli rigiriamo la domanda chiedendogli noi qual è la scuola che sogna Berlinguer. Ci parla quindi di una scuola in cui lo studente è il vero protagonista, in cui si mettono al centro la ricerca, l’apprendimento, le emozioni…

 In che modo secondo lei la scuola dovrebbe sostenere l’apprendimento?
«L’“imparare” non è mai stato davvero oggetto delle preoccupazioni delle classi dirigenti: chi ce la fa, va avanti, gli altri si disperdono. Ce lo dimostra la nostra stessa lingua: In inglese “imparare” si dice “to learn”. In Inghilterra è comune qualificarsi come “learner”, in Francia meno usato, ma comunque chiaramente compreso è il titolo “apprenant”. Nella lingua italiana questa figura non è definita, manca il vocabolo: l’”apprendista” è un ragazzo di bottega che impara un mestiere, non chi “impara ad apprendere”. Storicamente il processo scolastico ha assegnato scientificamente poco spazio agli studi del processo di apprendimento. Ripetere è il meccanismo più utilizzato per imparare. Oggi però gli alunni sono diversi, anche se i singoli profili non vengono analizzati e studiati. Ad esempio, nel momento in cui una classe di alunni va male in blocco in una materia, bisognerebbe approfondire per comprenderne le ragioni: gli interventi dovrebbero essere precisi e calibrati sui singoli casi, non tarati “sui bravi”. In Italia questo si fa poco, c’è un problema culturale da superare. Non può essere tutto affidato all’intervento autonomo di pochi bravi docenti, che pure ci sono: tutto dovrebbe essere più strutturato».

Infatti la scuola si avvale ancora di una didattica di tipo “trasmissivo” in cui prevale l’approccio cognitivo…
«La scuola italiana ha un impianto la cui serietà è stata riconosciuta anche all’estero. Nel primo ciclo, la formazione di base in passato era in mano alle maestre, che hanno avuto un ruolo straordinario nella nostra storia.  L’offerta formativa della scuola del tempo e la base del patrimonio culturale era data dalla sommatoria delle discipline (matematica, italiano, storia, ecc); così sono nati i temi e i riassunti. L’apprendimento passa attraverso un affinamento dello studio linguistico: è ancora così. Nella scuola italiana non si pone ancora sufficiente attenzione alla crescita complessiva degli individui, ma allo “studio”, alle nozioni apprese. Il docente chiede agli alunni di studiare a casa, non in classe: anche le case in cui si studia fanno la differenza, molti ragazzi non riescono ad essere seguiti nello studio pomeridiano dalle mamme che, per esempio, lavorano. Non si è pensato a una scuola che sostenesse il momento dello studio, ma che trasferisse conoscenze. Per questa ragione la scuola è “classista”: chi non aveva risorse veniva discriminato, chi era sostenuto da una famiglia benestante ce la faceva. Così abbiamo perso e continuiamo a perdere molti alunni. La scuola non sostiene attivamente il processo di apprendimento».

La nostra scuola ha un approccio narrativo e letterario che applichiamo a tutte le materie. Persino la matematica e la fisica vengono “raccontate”…
«Non si passa per il “capire”. Far comprendere presuppone un aspetto aggiuntivo alla trasmissione delle conoscenze. Il nostro processo di apprendimento che porta alla metabolizzazione delle conoscenze, e quindi al sapere, che è il livello più alto, implica il raggiungimento di vari stadi propedeutici al raggiungimento di questo gradino più alto: capire profondamente, cogliere il senso o il modo in cui qualcosa si inserisce in un contesto generale (arrivare al contorno del fenomeno). Ad esempio, la matematica è logica, dà senso alle cose, a mio avviso è la disciplina più formativa ma diventa sterile se la si riduce a regolette e formule da imparare a memoria. Per un ragazzo la matematica può diventare persino poesia. Sarebbe bello che la scuola diventasse un luogo in cui gli insegnanti vengono preparati per trasmettere le conoscenze secondo questa ottica, con questa ispirazione”.

Se è vero che il modello italiano è prettamente trasmissivo, è allo stesso modo vero che è pieno anche di casi “unici”, di storie che hanno promosso un approccio alla didattica più innovativo, una vera e propria “Scuola della ricerca”. Ne citiamo tre: Don Milani, Maria Montessori e Reggio Children…
«“See you on Reggio!” Mi dice Bruner dandomi un appuntamento. Lo apprezzo molto l’approccio di Reggio: hanno costruito una scienza. Don Milani è partito dall’osservazione delle ingiustizie sociali, ha rischiato la condanna da parte del Vescovo! Maria Montessori poi è stata un vero genio: durante il fascismo è stata cancellata anche perché la prima donna a laurearsi in Medicina. Ha lottato contro un pregiudizio sociale fortissimo. La scuola Montessori è popolarissima in tutto il mondo. I suoi principi pedagogici erano davvero innovativi, ha fatto proposte coraggiose, si è avvicinata anche lei a Reggio, che è diventata una delle capitali mondiali della pedagogia. Stupisce che queste storie siano punti luce luminosi di geni italiani in un sistema scolastico che, come abbiamo detto, ha tante carenze. Tanti sono stati i geni italiani criticati dai contemporanei».

Papa Francesco dice: “L’educazione sia integrata tra testa, cuore e mani”…
«Vero, tutti e tre. C’è sentimento nella conoscenza. Molti non lo considerano fonte di conoscenza, e invece non c’è conoscenza senza passione e la passione permette di capire molto più profondamente ciò che si vuole conoscere».

Come fa quindi la scuola a emozionare?
«La scuola deve registrare che la conoscenza è anche emozione. Nel sollecitare l’impegno a sapere, non solo serve il rigore logico, ma occorre qualcosa che coinvolga emotivamente. Con questo non si intende solo far intravedere la prospettiva di successo che deriva dalla conoscenza ma anche inserire materie artistiche, come la musica. L’arte, infatti, è conoscenza e deve far parte dei programmi scolastici. L’obiettivo non è solo mostrare agli studenti le opere di chi ha dipinto o suonato ma spingere a creare, disegnare, cantare, ecc. L’arte è conoscenza e l’emozione è un arricchimento della conoscenza. Siamo un paese bigotto e formalista che si lascia condizionare dalle forme sterili. Bisogna essere più flessibili».

Nelle scuole la tecnologia latita, quantomeno quella di ultima generazione. Come può la scuola andare incontro all’innovazione per evitare ai ragazzi di vivere una sorta di “scollamento” dalla realtà per il quale a scuola vivono in un mondo diverso da quello esterno?
«Non può. La scuola deve cambiare radicalmente e superare i suoi pregiudizi. Lo smartphone è uno strumento di conoscenza, non solo di svago. Perché vederlo solo come uno strumento negativo? Non bisogna seguire la cultura dei bigotti, di quelli che non usano il cervello ma vanno avanti per tabulas, facendo diventare regole ferree i pregiudizi. Coloro che si oppongono all’innovazione della scuola creano un ostacolo al cambiamento e all’avanzamento tecnologico. Bisogna sempre chiamare la scuola a spingersi avanti, non fermarla. Non si sviluppa il sapere se non cavalca tutte, ma proprio tutte, le opportunità che la tecnologia può offrire: non c’è peccato nella tecnologia. Basta arricchirla di contenuti culturali».

Il prof. Umberto Galimberti ha recentemente dichiarato “Dobbiamo dire con forza che la scuola non educa”. Che ne pensa?
«Mi sembra un po’ esagerato, è una posizione estrema. Lo rispetto molto e non so cosa volesse dire, ma provo a interpretare. Il solo fatto di imparare a leggere e scrivere educa. La scuola educa, ma bisogna aumentare la possibilità di educare; le strade possono essere molte. La parola “educare” significa “formare, plasmare” una creatura. Dobbiamo ridurre il tasso di formalizzazione dell’attività scolastica: il sapere non è solo ciò che appare, anche se bisogna saper argomentare, perché i discenti devono creare, essere protagonisti dell’apprendimento. La scuola deve favorire la creatività.  La scuola deve saper attrarre, non respingere”.