I veri ambasciatori sono i bambini

da la Repubblica

Franco Lorenzoni

Si torna a parlare di una legge sullo Ius culturae, che dia piena cittadinanza al milione di bambini e ragazzi nati qui o arrivati qui da piccoli.

La necessità di questa scelta è stata ben argomentata in queste pagine da Tito Boeri e Luigi Manconi, ma c’è un motivo ulteriore che credo vada sottolineato per il particolare significato culturale e sociale che riveste.

Nelle famiglie immigrate accade spesso che bambine e bambini, per la plasticità del loro cervello e la capacità di stabilire relazioni vivaci e aperte con i coetanei a scuola e nel gioco, apprendano la lingua più rapidamente e meglio dei loro genitori. Nell’imparare a parlare una lingua diversa da quella materna, superando difficoltà iniziali, entrano talvolta in alcune sfumature di significato della lingua italiana o dei dialetti parlati nelle città in cui abitano, con sottigliezza sorprendente e inventiva inusuale, dovuta alla ricchezza di sguardo sulla realtà offerta da un bilinguismo potenzialmente perfetto.

Questa frequentazione e immersione totale in una seconda lingua, che per la maggioranza dei figli di immigrati si trasforma rapidamente in prima lingua privilegiata, li porta sovente a fare da interpreti ai propri genitori, arrivando a comportarsi, in casa, come veri e propri ambasciatori del nuovo Paese di residenza.

Per alcuni, trovarsi a vivere in mezzo al guado, tra culture e comportamenti sociali talvolta distanti, spiazza e avvilisce.

Nella maggioranza dei casi aumenta la determinazione a essere, vestirsi e comportarsi come i loro coetanei, perché avvertono, con quella particolare apprensione e sensibilità che si ha a quell’età, quanto il confine tra l’essere percepiti come diversi e il venire discriminati sia pericolosamente sottile.

Ora, una società che abbia il desiderio di costruire un futuro di convivenza tra culture dovrebbe avere a cuore il pieno riconoscimento del ruolo essenziale incarnato dai più giovani in quel contraddittorio e dunque delicato processo di integrazione, che non può non essere reciproca.

Dare priorità al diritto di cittadinanza ai minori assume dunque un significato politico e culturale particolarmente rilevante oggi perché scommette sulla pacificazione e incentiva il dialogo sociale tra culture, riconoscendo il grande sforzo di traduzione, mediazione e necessario adattamento compiuto dal milione di bambini e ragazzi che, pur abitando le nostre città, avvertono più o meno consapevolmente di essere relegati in un limbo, con uno “statuto giuridico da fantasmi”, come denuncia un recente video realizzato dal movimento degli “Italiani senza cittadinanza”.

L’Italia, Paese in cui l’immigrazione è fenomeno recente, in trent’anni non ha ancora saputo costruire un’elaborazione culturale e un immaginario sociale relativo alla trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città. Potrebbe essere un vantaggio, visti gli evidenti limiti dell’assimilazionismo francese e del multicuturalismo inglese, ma dobbiamo creare le condizioni perché a dettare legge non sia la signora di Alessandria che ha fatto alzare in autobus dal posto accanto al suo una bambina di 7 anni perché nera, e da tutti coloro che hanno creato le condizioni culturali di quel gesto. Silenziosamente e spesso solitariamente da anni nidi, scuole dell’infanzia e primarie sono sempre più un laboratorio di convivenza che ha dato, pur tra luci e ombre, buoni risultati, visto che accoglie oltre il 10% di alunni stranieri mantenendo fino a 11 anni buoni livelli di apprendimento, stando alle comparazioni statistiche internazionali.

Nonostante questo, il fenomeno della fuga bianca dalle scuole ad alta percentuale di figli di immigrati continua ad accrescersi e cominciano a sorgere in alcune periferie urbane prime scuole coraniche.

Penso che nessun italiano dotato di buon senso possa augurarsi un futuro in cui, nelle nostre città, bambine e bambini frequentino scuole separate per etnia e per censo. Al contrario, dobbiamo investire di più e meglio perché si riduca la dispersione scolastica che, nelle scuole secondarie, vede il 35% dei figli di immigrati abbandonare precocemente l’istruzione, in una percentuale doppia rispetto ai figli di famiglie italiane.

Il motivo per cui tante e tanti insegnanti sono così sensibili alla questione della cittadinanza deriva dal fatto che constatano ogni giorno quanto il vivere in una situazione di precarietà riguardo al proprio futuro ostacoli l’apprendimento.

Lo Ius culturae offre dunque una doppia possibilità di crescita culturale alla nostra società: garantendo piena cittadinanza a chi ha terminato un ciclo di studi attenua l’incertezza di vite legate a permessi di soggiorno altalenanti, mentre tutti sappiamo quanto serenità e fiducia nel futuro migliorino le condizioni per andare bene a scuola. E dell’intelligenza, energia e preparazione dei ragazzi italiani senza cittadinanza sappiamo quanto il nostro Paese abbia bisogno.

L’autore è un maestro elementare e ha fondato la Casa-laboratorio di Cenci, centro di sperimentazione educativa