Formazione dei docenti: io vorrei… non vorrei… ma se vuoi

Formazione dei docenti: io vorrei… non vorrei… ma se vuoi

di Mario Maviglia

E’ stata firmata il 19 novembre scorso l’ipotesi di Contratto Collettivo Nazionale Integrativo riguardante i “Criteri generali di ripartizione delle risorse per la formazione del personale docente, educativo ed ATA per gli anni scolastici 2019/20, 2020/21, 2021/22”. La denominazione di questo atto negoziale non deve trarre in inganno: in realtà non riguarda solo i criteri di ripartizione delle risorse destinate alla formazione, ma rivede la stessa organizzazione e gestione della formazione a livello territoriale. Infatti, a differenza di quanto previsto dal precedente piano triennale di formazione, fortemente centrato sull’azione delle reti di scuole di ambito introdotte dalla L. 107/2015, in questo contratto triennale l’attenzione viene riportata sulle singole istituzioni scolastiche. L’art. 1 del CCNI prevede infatti che “la programmazione e la concreta gestione delle attività di formazione in servizio avvengono a livello di singola istituzione scolastica e di reti di scuole nel rispetto delle prerogative del Collegio dei docenti e del Consiglio di istituto”. Questa centralità della scuola viene ribadita dal successivo art. 2 con la sottolineatura che “Il Piano di formazione d’istituto è realizzato in coerenza con gli obiettivi del PTOF, con le priorità nazionali e con i processi di ricerca didattica, educativa e di sviluppo, considerate anche le esigenze ed opzioni individuali. Esso comprende le attività deliberate dal Collegio dei docenti ai sensi dell’art.66 del C.C.N.L. 2006-2009 e le azioni formative proposte dal Direttore per i Servizi Generali ed Amministrativi per il personale ATA … Queste iniziative sono progettate dalla scuola singolarmente o in reti di scopo, favorendo anche la collaborazione con le Università, gli Istituti di ricerca, e con le Associazioni professionali qualificate e gli Enti accreditati ai sensi della Direttiva n.170/2016.” Il Piano di formazione d’istituto può comprendere anche iniziative di autoformazione, di formazione tra pari, di ricerca ed innovazione didattica, di ricerca-azione, di attività laboratoriali, di gruppi di approfondimento e miglioramento.

Vengono quindi oscurate le reti? Non proprio. Diciamo che non hanno più quella centralità che avevano prima (centralità improvvidamente prevista dalla L. 107), ma si pongono ad un secondo livello di formazione, con l’obiettivo di soddisfare bisogni formativi trasversali o disciplinari non realizzabili a livello di singola istituzione scolastica. L’aver puntato quasi esclusivamente sulle reti nel corso dell’ultimo triennio, oltre che operazione ambiziosa, ha fatto perdere di vista la necessità di innestare le attività formative delle scuole sui dati emergenti dai RAV delle scuole stesse e dai rispettivi Piani di Miglioramento. In quanto imposta dall’alto, la rete rischia di diventare una sorta di sovrastruttura burocratica, lontana dai bisogni formativi dei docenti e non in grado di venire incontro alle esigenze di formazione che trovano espressione all’interno delle singole istituzioni scolastiche. Insomma, l’eccessiva fiducia riposta nelle reti rischiava di relegare ad un ruolo secondario il protagonismo delle singole scuole, coartando il soddisfacimento dei  bisogni formativi più immediati (ma non per questi meno significativi e importanti) espressi dai docenti nelle singole istituzioni scolastiche. Va sottolineato, a questo proposito, che vi è una dimensione formativa che è specifica e peculiare di ogni singola istituzione scolastica e non può essere misconosciuta in quanto è all’interno dell’istituto che si creano dinamiche, procedure, relazioni e strategie didattiche che possono favorire o impedire i processi di apprendimento. In altre parole, è la scuola la cellula vitale dell’erogazione del servizio scolastico, non la rete. La recente ipotesi di CCNI attenua questa stortura ristabilendo la centralità della singola istituzione scolastica nella definizione dei piani di formazione del personale della scuola.

Un aspetto che invece non ha trovato soluzione all’interno del CCNI è la quantificazione del monte ore da dedicare alla formazione diventata “strutturale, obbligatoria e permanente” in seguito all’emanazione della L. 107/2015 (comma 124). Questa è una vecchia querelle che non ha trovato ancora una compiuta soluzione. Di fatto, allo stato attuale, non vi è alcun obbligo di ore di formazione da svolgere se non quelle deliberate dal Collegio dei docenti (e dunque da far rientrare nell’ambito delle ore dedicate alle attività funzionali all’insegnamento). Il CCNL 2016/2018 non ha introdotto alcuna novità in merito. Lo stesso ministero, con espressioni linguistiche alquanto pirandelliane, ha ribadito che “L’obbligatorietà [della formazione] non si traduce automaticamente in un numero di ore da svolgere ogni anno, ma nel rispetto del contenuto del piano [di formazione]” (nota MIUR 25134 dell’1/06/2017). 

Eppure, nella letteratura riguardante le varie professioni, ogniqualvolta si parla di “formazione obbligatoria” questa viene automaticamente collegata a un monte ore ben definito. Citiamo alcuni esempi:

  • Medici e odontoiatri, 150 crediti ECM (Educazione Continua in Medicina) ogni triennio 
  • Psicologi, 150 crediti ECM ogni triennio, a decorrere dal 2020 
  • Giornalisti, 60 crediti CFP (Crediti Formativi Professionali) ogni triennio
  • Avvocati, 60 crediti CFP ogni triennio
  • Architetti, 60 crediti CFP ogni triennio
  • Ingegneri, almeno 30 crediti CFP ogni anno.

Certo, si può eccepire che si tratta di figure professionali per le quali è prevista l’iscrizione ad uno specifico albo per l’esercizio della professione, ma quello che qui si vuole rimarcare è che l’attività formativa, se non è perimetrata in senso spazio-temporale, rischia di essere un contenitore vuoto oppure una dimensione professionale troppo legata ai particolari umori dei diversi contesti scolastici (docenti particolarmente sensibili o motivati, dirigenti esigenti ecc.), determinando una grande varietà di comportamenti. Eppure sembrava che la legge 107 fosse sulla strada giusta avendo stabilito il carattere “obbligatorio” della formazione e abbandonando definitivamente le fumisterie della vecchia concezione della formazione come “diritto-dovere” dei lavoratori della scuola senza alcun aggancio con la dimensione temporale. 

Per la verità vi è stato qualche timido tentativo di contornare questo problema attraverso la locuzione di Unità Formativa introdotta dal Piano per la formazione dei docenti 2016-2019: “Al fine di qualificare e riconoscere l’impegno del docente nelle iniziative di formazione, nel prossimo triennio in via sperimentale, le scuole articoleranno le attività proposte in Unità Formative. … L’Unità Formativa viene riconosciuta e acquisita in modo da tenere conto delle diverse attività formative sopra indicate e costruita in modo che si possa riconoscere e documentare il personale percorso formativo del docente, all’interno del più ampio quadro progettuale della scuola e del sistema scolastico. Per la definizione delle Unità Formative, in fase di prima definizione può essere utile fare riferimento a standard esistenti, come il sistema dei CFU universitari e professionali.” E’ noto che nella normativa universitaria un CFU corrisponde convenzionalmente a 25 ore. Il Piano prevede che “nella progettazione dei Piani triennali, andrà posta particolare attenzione, soprattutto in questa prima fase di attuazione, alla necessità di garantire ai docenti almeno una Unità Formativa per ogni anno scolastico, diversamente modulabile nel triennio.”

Anche il Documento di lavoro per lo sviluppo del Piano di formazione docenti 2016-2019. Questioni operative (allegato alla nota MIUR 9684 del 6/03/2017) insiste su questo aspetto: “La descrizione di una Unità Formativa può prendere spunto, da modelli simili elaborati in ambito universitario (il riferimento è al CFU: credito formativo universitario, che individuano un segmento formativo strutturato e ‘auto consistente’ che, secondo le specifiche ANVUR, è pari ad un riconoscimento di un impegno complessivo di 25 ore).” Va però sottolineato che nel documento dell’anno successivo, Sviluppo professionale e qualità della formazione in servizio (nota MIUR del 16/04/2018), si parla più genericamente dell’opportunità di definire “un monte ore strutturato (comprensive di ricerca, studio e pratica in classe) da dedicare alla cura della propria preparazione, con ampi margini di libertà di scelta, ma anche con l’obbligo di partecipare a momenti specifici di formazione all’interno del proprio contesto di lavoro, quando cambiano gli scenari istituzionali e organizzativi, oltre che didattici (D.M. 797/2016).”

Insomma, quando si tratta di definire con chiarezza e senza infingimenti un monte ore (almeno) minimo da dedicare alla formazione in servizio, tanto l’Amministrazione scolastica quanto le OO.SS. preferiscono lasciare tutto nell’indistinto, scaricando sulle singole scuole le scelte in questo campo strategico e periferizzando, di fatto, gli inevitabili conflitti tra dirigente scolastico e Collegio dei docenti. Di fatto non si riesce a comprendere come l’”obbligatorietà” della formazione si possa coniugare con l’aleatorietà della sua durata con il paradosso che sono legittime decisioni molto diverse prese dalle varie scuole (in teoria le istituzioni scolastiche possono approvare Piani di formazione che prevedono 2 oppure n ore). E d’altro canto se la formazione è “obbligatoria” per volere della legge, necessariamente deve svolgersi nell’ambito dell’orario di servizio, ossia nelle indecifrabili 40+40 ore annue. Insomma, a fronte di una produzione normativa altisonante sul valore formativo e professionale della formazione in servizio, le condizioni di esercizio di tale “obbligo” appaiono ancora quanto mai evanescenti, o, se si vuole, inibite, come un’automobile lanciata a 100 km all’ora, ma con il freno a mano tirato.