Su Invalsi e alternanza serve più coraggio

da Il Sole 24 Ore

di Giorgio Allulli

E alla fine di molti pensamenti e ripensamenti il ministero dell’Istruzione ha dovuto prendere atto della necessità (in mancanza di una nuova normativa di pari rango) di attuare quanto previsto dal decreto legislativo del 2017, ovvero richiedere come requisito per l’ammissione agli esami di maturità la partecipazione ai test Invalsi ed all’alternanza scuola lavoro.

Scuola-lavoro
Ci sarebbe di che rallegrarsi, se non fosse che in precedenza il ministro Bussetti aveva praticamente smontato l’alternanza scuola lavoro, ridenominandola “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” e, soprattutto, dimezzando il numero di ore richieste per espletare questa attività. Ne è scaturito un segnale estremamente negativo per molte scuole, che hanno interpretato questa retromarcia come un segnale di disimpegno, tanto più grave e deprimente per docenti, presidi e studenti quanto maggiore ne era stato lo sforzo per avviare iniziative significative. Ne è derivato dunque un processo di stop and go, che non mancherà di riverberarsi sulla motivazione e, forse, sulla preparazione degli studenti che hanno certamente avvertito la discontinuità della politica e della sensibilità governativa su questo tema.

Prove Invalsi
Ancora più complessa, se possibile, la vicenda dei test Invalsi, che sono rimasti come prerequisito dell’esame di Stato nonostante le più volte manifestate perplessità dello stesso Ministro in materia. La reintroduzione dell’obbligatorietà delle prove Invalsi per l’ammissione agli esami di maturità potrebbe essere certamente un elemento positivo se fosse inserito in un sistema di valutazione che è diventato invece sempre più autoreferenziale, dati il peso crescente attribuito negli esami di Stato al curriculum precedente degli alunni e la presenza sempre meno significativa degli esaminatori esterni; tuttavia l’introduzione di queste prove viene fatta prestando la massima attenzione a “non disturbare il manovratore”, ovvero facendo bene attenzione a non farle interferire in nessun modo nel processo di valutazione condotto all’interno dell’esame di Stato; infatti i risultati delle prove saranno tenuti riservati, nella loro forma analitica, e verranno relegati, in forma descrittiva, in una specifica sezione del certificato finale di maturità, senza nessun peso (o possibile correlazione) sul voto finale. Sfuma così la possibilità di inserire in questo processo un possibile elemento di moderazione del voto, che poteva consentire agli esaminatori di formulare un giudizio tenendo presenti anche i risultati conseguiti nella prova standardizzata. Continueremo dunque a constatare la situazione paradossale che ci mostra il conseguimento di punteggi più alti nelle prove Invalsi e Ocse Pisa sostenute nelle regioni del Nord, contro il conseguimento di voti più alti nell’esame di Stato sostenuto nelle regioni meridionali.

Il (falso) favore agli studenti meridionali
Al di là dell’ingiustizia evidente di questi esiti va considerato che essi finiscono per legittimare livelli di insegnamento notevolmente differenziati nelle diverse aree del Paese. Si tratta di un meccanismo che non favorisce gli studenti meridionali, come potrebbe sembrare, ma al contrario li penalizza, perché li condanna ad uscire dalla scuola con una preparazione inferiore a quella dei loro colleghi, e dunque ad incontrare maggiori difficoltà nel proseguimento della vita attiva e di lavoro. Inoltre questo meccanismo autoreferenziale toglie credibilità, presso il sistema universitario e le imprese, ai punteggi dell’esame di Stato; il primo ricorre dunque all’uso di test di ammissione per l’accesso a molte facoltà, mentre i secondi devono ricorrere a svariati meccanismi di selezione della manodopera, tenendo poco conto del voto ottenuto nell’esame, a tutto scapito dei ragazzi che più si sono impegnati efficacemente nello studio.

Sarebbe dunque ora di attribuire un peso maggiore alle prove Invalsi nel curriculum dello studente, rafforzando anche la capacità dei docenti di sfruttare l’enorme potenziale informativo che deriva da queste prove per “aggiustare” la propria attività didattica, nella considerazione dei punti di forza e di criticità che ne emergono, e rafforzando la capacità dell’amministrazione scolastica di sostenere le situazioni che si dimostrano più deficitarie e di valorizzare le aree di punta del nostro sistema diffondendone le buone pratiche.