Lo Stato dimentica chi studia

da La Stampa
Andrea Gavosto*

Il ministro Lorenzo Fioramonti ha mantenuto l’impegno, preso forse in modo un po’ avventato al momento dell’insediamento, di dimettersi nel caso in cui le risorse per la scuola, l’università e la ricerca non fossero aumentate significativamente nella legge di bilancio del 2020. Tanto di cappello alla sua coerenza, soprattutto in un Paese in cui le promesse dei politici di lasciare in caso di insuccesso rimangono spesso lettera morta.
Le motivazioni delle dimissioni danno l’occasione per qualche riflessione sul tema delle risorse per l’istruzione. Va premesso che gli investimenti in questo campo sono i più importanti in una prospettiva di benessere e crescita duraturi dell’intera società nazionale; soprattutto, rappresentano una scelta di campo a favore dei giovani, in un Paese che tende sempre a privilegiare gli anziani, al punto da spendere oltre il 20% del Pil in pensioni. Poche settimane fa la Fondazione Agnelli lo ha ricordato auspicando, a conclusione di un suo rapporto, un programma pluridecennale di spesa per l’edilizia scolastica e la didattica perfino più ambizioso di quello di Fioramonti. È però utile sgombrare il campo da un «falso mito», ossia che in Italia si spenda in generale troppo poco per la scuola. Bisogna distinguere, perché solo così si può capire che non sempre è una questione di quantità, ma spesso di qualità della spesa.
Se prendiamo i dati e i confronti internazionali dell’ultimo rapporto Education at a Glance dell’Ocse, scopriamo che per la scuola l’Italia spende appena meno della media degli altri Paesi avanzati. In particolare, la spesa per studente è nella scuola dell’infanzia e primaria il 94% della media Ocse, il 92% nella scuola secondaria. Non è una differenza così significativa, e questo deve portarci a concludere che nella scuola spesso spendiamo male, visto che i nostri risultati di apprendimento sono insoddisfacenti e soprattutto con divari territoriali forse senza eguali al mondo. E credo continueremmo a spendere male se dovesse passare una politica di aumenti a pioggia e indifferenziati per tutti gli insegnanti – come ha promesso in passato lo stesso ministro -, invece di un criterio che premi impegno e competenze: ad esempio, definendo percorsi di carriera nei quali siano valorizzate l’innovazione e la qualità della didattica e la disponibilità a lavorare più a lungo (la scuola del «pomeriggio») e nelle situazioni più problematiche.
Molto più bassa della media Ocse è invece la spesa per studente all’università: soltanto il 69%, un divario enorme. Il vero e grande problema di quantità delle risorse oggi è qui, come lo stesso Fioramonti ci ha ricordato in un suo commento sui social, argomentando le dimissioni. La scarsità di risorse sta determinando gravi danni al nostro sistema universitario, a cominciare dall’impossibilità di rimpiazzare i professori che vanno in pensione. Nel giro di un decennio, gli atenei hanno visto ridotto di quasi diecimila unità il numero di docenti e ricercatori a tempo pieno (oggi siamo appena sopra i 50 mila): diventa quindi impossibile attivare nuovi corsi di laurea – o addirittura mantenere quelli vecchi –, assicurare condizioni didattiche decorose e favorire la transizione al lavoro.
L’università italiana ha oggi un serio problema di investimenti, che le impedisce di mantenere il passo con quelle dei Paesi più avanzati. Non stupisce che negli ultimi anni oltre 150.000 giovani diplomati e laureati in Italia abbiano preso la strada dell’estero: una perdita di capitale umano senza senso per il nostro Paese. Se il gesto del ministro Fioramonti riuscirà a farci discutere seriamente di questi problemi, gli dovremo essere grati.
* Direttore Fondazione Agnelli —