La mia scuola perfetta

da la Repubblica

di Eraldo Affinati

Il Piano triennale di Offerta Formativa (Ptof) è la carta d’identità di ogni scuola.

Questo documento, redatto dai docenti secondo apposite direttive ministeriali, che dettano i criteri da seguire per fotografare la situazione esistente le azioni da svolgere al fine di migliorare le eventuali criticità, deve essere approvato dal consiglio d’istituto.

Quando i genitori iscrivono i figli a scuola lo dovrebbero avere ben presente: è in quelle pagine che viene descritto il contesto sociale dell’istituto nel suo rapporto con il territorio, le materie che si insegnano, i titoli di studio rilasciati, gli obiettivi e le scelte strategiche, le attività praticate, i criteri adottati per la valutazione degli apprendimenti, i piani di formazione e le azioni da mettere in campo per favorire l’inclusione.

Questo testo è la presentazione che ogni scuola fa di se stessa per attrarre maggiori iscrizioni: chi lo considerasse un volantino pubblicitario certo semplificherebbe, tuttavia non sarebbe lontano dalla verità. Ma qual è la scuola migliore? Qui cominciano i problemi: per alcuni, inutile negarlo, è quella che seleziona gli alunni, dividendo i bravi dai somari, i capaci dai negligenti, i promossi dai bocciati, gli italiani dagli immigrati, i bianchi dai neri, i ricchi dai poveri, i forti dai deboli. Chi, come me, ha insegnato per oltre trent’anni italiano e storia negli istituti professionali, negli istituti tecnici, nei licei e nelle università, sa bene che non è così; anzi è vero il contrario.

Solo nella mescolanza, culturale, antropologica, anagrafica, linguistica, caratteriale, fisica, di genere, chi più ne ha più ne metta, si cresce davvero. Eppure certi pregiudizi sono duri a morire.

Resto convinto che una classe di soli ripetenti sarebbe tristissima, così come una composta di soli secchioni: tutta la mia esperienza didattica mi spinge a crederlo, ci ho scritto sopra anche qualche libro, ma devo ammettere che molti genitori, compresi alcuni che in teoria si dichiarano d’accordo con me, nel momento in cui sono chiamati a decidere sul futuro dei loro figli, cedono all’istinto e, scansando infastiditi gli edifici statali a volte fatiscenti, con classi composte spesso da tanti extracomunitari e da qualche borgataro, s’orientano verso quelli che io definisco gli “acquari fioriti”: ambienti protetti, arredati in stile finlandese, passi se devono pagare una cospicua retta, senza peraltro calcolare il rischio nascosto in tutte le isole nuove che, come scrisse il grande Rodolfo Wilcock, “da lontano sembrano così verdi / per quanto, immagino, saranno piene di vipere.”

A questa categoria di persone fanno l’occhiolino, diciamola tutta, certi Ptof, abilmente mascherati dietro le “direttive ministeriali” che in verità, viste le ricorrenti grancasse mediatiche d’inizio anno (a fine gennaio scadono i termini entro cui presentare le domande d’iscrizione), potrebbero essere aggiornate o modificate ponendo al primo posto, al di là della descrizione dei contesti in cui opera la scuola (che non dovrebbe implicare la divulgazione dei mestieri dei genitori degli alunni), l’obiettivo numero uno da realizzare a livello nazionale: integrazione di tutte le differenze e promozione sociale in ottemperanza al dettato costituzionale. A costo di allontanare qualche famiglia schizzinosa e suscitare il sofisticato sconcerto dei soliti spiriti arguti pronti a rimarcare l’effetto controproducente del “politicamente corretto”.

Post scriptum. Il giorno in cui sono divampate le polemiche sull’istituto romano che aveva evidenziato nel suo sito la differente composizione sociale dei propri plessi scolastici, io stavo insegnando italiano agli immigrati a Casal Bertone, quartiere periferico capitolino.

Insieme a me, seduti uno accanto all’altro, c’erano settantacinque scolari e settantasei volontari, più sette all’accoglienza. Fra i docenti dei giovani africani e asiatici figuravano diciassette liceali italiani.