Rete servizi formativi e riorganizzazione EE.LL.

LA RETE TERRITORIALE DEI SERVIZI FORMATIVI E LA RIORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI LOCALI

di Gian Carlo Sacchi

Ormai il tempo stringe, la spending review ha imposto un riordino piuttosto drastico di Comuni e Province in base alla superficie territoriale e al numero degli abitanti. Che vi siano ragioni di razionalizzazione è cosa risaputa e condivisa, soltanto che quando c’è da mettere mano a tagli, accorpamenti e nuove modalità di gestione dei servizi ai cittadini, l’Italia si scopre conservatrice, forse più delle istituzioni politiche che della reale efficienza amministrativa, e identitaria, come se ciò non costituisse un rapporto dinamico, di carattere glo-cale, oggi sempre più vocato all’interculturalità.

Si potrà discutere se i numeri messi in campo dal Governo siano appropriati, ma nella storia della nostra pubblica amministrazione ci sono state e ci sono parecchie storture per cui da qualche parte bisogna pur iniziare. Si pensi da un lato ai piccoli e piccolissimi comuni, dall’altro al rapporto tra province e regioni: si sa infatti che le province andavano abolite all’entrata in vigore delle regioni a statuto ordinario, e dall’altro ancora al decentramento delle competenze dello stato centrale, ancora largamente inattuato.

Un processo coerente avrebbe richiesto prima una riorganizzazione Stato – Regioni – Enti Locali, sancito peraltro fin dal 1998 e dal titolo quinto della riforma costituzionale del 2001, rimasti entrambi lettera morta, e poi il riordino degli enti territoriali ai quali si sarebbero aggiunte, come previsto dalla costituzione stessa, le autonomie scolastiche.

Invece presi dall’emergenza soprattutto finanziaria stiamo cercando di fare tutto contemporaneamente agendo all’interno di ogni singolo settore, cosa che all’inizio può garantire un risparmio che però deve essere verificato nel medio periodo soprattutto in relazione al rapporto tra servizi e territorio. Ma forse quando lo spred si sarà “raffreddato” torneremo al gattopardismo italico con qualche aggiunta anziché semplificare.

E’ risaputo che gli uffici periferici dell’amministrazione scolastica non andrebbero raggruppati sotto il nuovo ufficio territoriale del governo, ma le attribuzioni andavano passate a scuole autonome e enti territoriali; lo stesso dicasi per gli uffici regionali in relazione alle “competenze concorrenti” delle regioni, ecc. Allora il punto torna ad essere l’analisi delle funzioni più che quella dei perimetri o del censimento delle popolazione; è infatti da una nuova governance che si può trarre risparmio e contemporaneamente sviluppo, mentre non vi è dubbio che la visione della spending review sia rimasta centralista.

Facendo derivare tutto dalla leva finanziaria, erogata dallo stato, il decentramento costituiva una pericolosa deriva di moltiplicazione dei centri di spesa, anziché un’ipotesi virtuosa di trovare risorse locali, magari con il federalismo fiscale o attraverso l’integrazione di diversi servizi e la tanto acclamata sussidiarietà.

Così avendo mantenuto inalterato l’aspetto burocratico e diminuito i finanziamenti si rischia di mutare l’assetto interno dei servizi stessi chiamando con lo stesso nome cose orami notevolmente diverse, sempre più legate all’emergenza e diminuendo la qualità.

E’ chiaro che non si può pensare ad un’autonomia anarchica o ad un servizio fai da te, si tratta sempre del “sistema nazionale di istruzione”, ma basta cambiare il ruolo dello stato che da gestore diventa regolatore ed il sistema anziché rimanere ingessato e sempre meno equo, può svolgere la sua funzione di interprete delle esigenze del territorio mantenendo la vocazione universalistica della cultura e dell’aiuto alla crescita delle persone. In questo modo la E di educazione deve stare alla pari con la E di economia, perché è dalla prima che si potrà mantenere il passo con lo sviluppo; servizi educativi, scuola, formazione professionale e permanente, nella prospettiva costituzionale, costituiscono un imprescindibile strumento di promozione e di progresso delle persone e dei territori.

La normativa inserisce tali servizi tra le “funzioni fondamentali” dei nuovi enti locali, ma le manovre di riorganizzazione sembrano avere altre priorità, mancando, come si è detto, l’assunzione diretta delle responsabilità da parte degli stessi.

Un esempio piuttosto emblematico è quello della scuola dell’infanzia, per la quale i comuni predispongono le condizioni e lo stato non da gli insegnanti. Tutto questo costringe amministratori e genitori a soluzioni surrogatorie, che spesso tendono a svolgere più una funzione di contenimento e di custodia, magari sotto lo stesso tetto con le realtà scolastiche tradizionali.

Sappiamo quanti sforzi sono stati compiuti in diverse direzioni per passare dagli “asili” alle “scuole” dell’infanzia, e pur riconoscendo altrettanto cammino nel settore di un rinnovato welfare, non si può non esprimere preoccupazione che anche sul piano culturale e pedagogico torni a prevalere la prospettiva assistenziale, forse distrattamente tollerata anche dalle famiglie o più specificamente che queste ultime deleghino al sistema pubblico la garanzia di un servizio al passo con i tempi senza rendersi del tutto conto del suo progressivo deterioramento. Pensiamo che una delle recenti proposte di riordino generale dei cicli di istruzione per anticipare il diploma a 18 anni è anche quella, peraltro non nuova, di rendere obbligatorio l’ultimo anno della scuola dell’infanzia. Con quale grado di generalizzazione?

Principi generali sul piano nazionale, livelli essenziali delle prestazioni, dice la Costituzione; standard di apprendimento per valutare l’efficacia e l’efficienza del sistema, ma anche standard locali per porre in relazione i grandi obiettivi con quelli del territorio in continuo cambiamento; politiche di sostegno alla qualità e all’innovazione, anche attraverso la ricerca, la documentazione, la formazione. Il “sistema” formativo territoriale deve mantenere un governo pubblico – partecipato e non venire appaltato, come è facile notare secondo logiche troppo “global service” che gli enti locali stanno adottando anche per difficoltà normative di gestione dei propri bilanci. L’esternalizzazione di tali servizi diventa quasi una necessità, ma l’educazione in una comunità non è soltanto un capitolato d’appalto: è, come si è detto, un segnale di sostegno allo sviluppo, di cittadinanza e di civiltà.

Alcuni indicatori da inserire nella discussione relativa al riordino:

– la programmazione territoriale non è soltanto una questione di confini amministrativi (ambiti territoriali) o di popolazione scolastica; occorre tenere presente la qualità della formazione erogata, utilizzando vari tipi di dati desunti da ricerche che coinvolgono il territorio, nella individuazione ad esempio dei vari plessi che compongono gli istituti comprensivi, le reti di scuole, ecc., per mantenere l’equità del sistema locale;
– gli standard, quelli nazionali e quelli costruiti nella comunità, per giudicare la “sostenibilità” del servizio, da parte delle famiglie, dei Comuni (costi standard e federalismo fiscale);
– professionalità interne ed esterne al sistema: con i tagli agli organici si fa largo il popolo delle partite IVA o altre figure fornite da cooperative, tagesmutter, ecc.: i loro requisiti, i progetti educativi cui fanno riferimento, l’organizzazione del servizio stesso, chi lo valuta, ecc.;
– i “tempi scuola”: tempo sociale e tempo educativo. Le famiglie chiedono più tempo, più flessibilità negli orari: il modello tempo pieno per i lavoratori della fabbrica è superato; “tempo pieno, ma di che” ? Servizi integrativi …..;
– edilizia scolastica: manutenzione e sicurezza degli edifici; obsolescenza delle attrezzature e rapporto con il mondo del lavoro;
– programmazione degli indirizzi scolastici: istituti superiori plurindirizzo, richieste dell’utenza e dinamiche sociali; mercato del lavoro, orientamento, ecc.;
– educazione degli adulti: standard europei, bisogni formativi della popolazione adulta; far emergere le competenze non formali.

 

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