Un altro modo di leggere le elezioni regionali

Un altro modo di leggere le elezioni regionali

di Gian Carlo Sacchi

Le recenti elezioni regionali hanno creato nell’opinione pubblica una grande tensione, come mai in passato era capitato per competizioni analoghe. Anche questa volta la contrapposizione politica si è spesa in uno spettacolo perlopiù mediatico ordito su ciò che accade la sera prima e che porta la dimensione nazionale a confondere quella locale in modo da dare quest’ultima in pasto al fanatismo delle contrapposte tifoserie.

Ciò che è accaduto in Emilia Romagna però ha posto gli elettori di fronte ad una diversa prospettiva di ricerca del consenso e cioè quella di misurarsi con la verifica di un’azione amministrativa, per poterla confermare o smentire, e anche se non è stato possibile depurare tale impostazione dalle incrostazioni ideologiche, si èriportato in auge il ruolo della regione per la quale continua a non esserci molta considerazione. Degli enti intermedi infatti a “tutti” i nostri politici interessa poco: si veda la sopravvivenza delle Province, scampate malamente all’abrogazionismo del referendum renziano  e per quanto riguarda le Regioni c’è chi ancora le considera un inciampo all’occupazione del potere statale, come rivela il fallimento della riforma del titolo quinto della Costituzione pur approvato dagli italiani. 

Si dirà che in questa occasione l’alta partecipazione al voto è dovuta alla congiuntura politica, ma non si può negare la maggiore responsabilizzazione dei sindaci e una campagna elettorale fondata sui servizi, sugli indicatori economici e sociali, su un modello di società competitiva ma anche solidaristica, elementi sui quali si è misurato il precedente governo regionale. 

E’ stata interrotta quella dinamica che ha fatto dell’appartenenza ai partiti il richiamo al voto nelle diverse “repubbliche”, dai consigli di quartiere fino al parlamento nazionale, e la richiesta che oggi viene dal popolo non è verso un nuovo “salvatore”, ma alla buona amministrazione dei territori. Questo è centrato sulle persone, sulle relazioni sociali, sulla vicinanza tra i rappresentanti e i rappresentati, sulla valorizzazione delle reti di enti che ai diversi livelli  territoriali garantiscono stabilità ed efficienza.

Una novità che può essere di buon auspicio per le prossime elezioni regionali e valorizza degnamente la celebrazione del cinquantesimo anniversario della nascita delle regioni stesse. Una data che potrà passare inosservata, ma che segnala un rafforzamento della democrazia nel nostro Paese e del dibattito sul regionalismo, ripreso timidamente dall’attuale governo. Quello che è accaduto in Emilia Romagna ha dato un’ulteriore spinta al riconoscimento di una maggiore autonomia, così come la stessa ha da tempo richiesto e come altre regioni che si sono incamminate sulla stessa strada, senza che questo diventi un’occasione di scontro ideologico. 

Il consenso può essere indirizzato a diverse formazioni politiche che in un dato momento possono dimostrare maggiore affidabilità, ma può cambiare sulla base della verifica di quanto realizzato per il benessere dei cittadini. Le regioni pur con maggioranze politiche diverse possono poi ritrovarsi in organismi collegiali per condividere gli interventi più capaci di andare incontro alle esigenze dei territori senza perdere di vista il bene comune di tutto il Paese. 

Ciò che si può dedurre dai risultati “sociali” dell’Emilia Romagna è che il regionalismo non è da temere ma finalmente da realizzare,riportando nella giusta prospettiva anche altre regioni tentate di farne oggetto di contesa politica o di tramontate formule secessionistiche, e magari cambiando anche il sistema parlamentare.

Se quindi si sta abbandonando lo strapotere dei partiti per andare direttamente verso la società civile allora sorge evidente un problema che in passato era risolto dalle appartenenze ideologicheed è così ancora solo nella mentalità di alcuni “leader”, ma per questioni più che altro di proselitismo, quello della formazione dei cittadini, in senso lato per aumentare la qualità e non solo i numeri della partecipazione ed in senso stretto per la selezione della classe politica. 

C’è stato un momento, verso la fine del secolo scorso, che anche nelle scuole e nelle università si voleva diffondere l’educazione alla politica, mentre in tempi più recenti basta la parola in detti ambienti per fomentare lo scontro tra opposte fazioni. Si può parlare di diffidenza tra le diverse formazioni organizzate che temono l’educazione come imposizione di opinioni preconfezionate di parte anziché la ricerca critica sulla realtàanziché il ricorso ai valori che aiutano lo sviluppo delle persone, oppure davvero si vuole recidere il legame tra ciò che il mondo è attraverso le scienze e le tecnologie, o come dovrebbe essere, attraverso l’etica, il diritto e quindi la politica. E’ questa la ragione della nostra crisi, come la descrive Vito Mancuso, che non è tanto economica, ma di civiltà e che riguarda i fondamenti dello stare insieme degli esseri umani, non più in grado di sentirsi soci e quindi di costruire società.

Oggi si vuole rilanciare l’educazione civica, che dovrebbe entrare in vigore nella nuova formulazione il prossimo anno e che così com’è stata elaborata ha un forte richiamo all’insegnamento della storia, soprattutto recente, con il compito di far comprendere ai giovani le radici della nostra convivenza e della Costituzione. E’ per comprendere ed applicare la nostra carta fondamentale che fu  introdotta una disciplina, che oggi rischia di essere caricata di tante emergenze sociali, senza pensare che si potrà formare il cittadino solo riempiendo il vuoto di educazione politica per la maturazione di personalità gelose delle libertà personali e consapevoli del pluralismo democratico e delle libertà altrui.  Non si tratta pertanto di aggiungere contenuti e nozioni a quelle già fornite, ma di educare ad un modo di essere condiviso e di agire nella vita sociale.

E’ importante che fin da giovani si apprenda com’è organizzato il nostro sistema istituzionale che il cittadino dovrà sempre più frequentare da solo, con l’aiuto tutt’al più di strumenti informativi, venendo meno le intermediazioni che agivano sulla maturazione personale quanto a idee ed esperienze. Occorre valorizzare ad esempio i consigli comunali dei ragazzi o altri strumenti di partecipazione che si vanno sviluppando su tematiche ambientali o più semplicemente relative alla comunicazione politica, o riferirsia quelle esperienze di conduzione del processo legislativo europeo fatto frequentare ad istituti superiori dell’Unione. Che non siano però semplici simulazioni per sfociare soltanto in una ricostruzione teorica degli eventi, ma un vero “apprendistato politico”, dove ci sia la possibilità guardando al passato dicostruire il futuro e mettere in relazione direttamente la conoscenza con la vita, lo sviluppo del sé e delle relazioni con gli altri.

Tutti dovrebbero vivere la quotidianità nel segno della consapevolezza politica, perché “l’agire politicamente” non può essere delegato ai mestieranti o limitato al momento del voto, ma comporta l’esserci in prima persona, per evitare la disaffezione manifestata da tanti cittadini soprattutto giovani dai luoghi della politica, ma questo richiede un impegno diffuso nella scuola come nelle università ad educare alla capacità critica. Mentre solo qualche decennio fa era la partecipazione democratica l’elemento cardine della costruzione sociale e della cittadinanza, oggi è necessario guardarsi dall’appiattimento informativo dovuto ai social che favorendo l’esplosione delle idee finisce per far prevalere quelle più balorde. 

L’ultimo rapporto OCSE-PISA dice infatti che solo un quindicenne su venti sa distinguere fatti e opinioni quando legge un testo a lui non familiare. Educare al pensiero critico deve emergere dunque tra gli obiettivi principali di un percorso formativo, come faceva quella docente di Palermo travolta dal dogmatismo sovranistico.

E’ il momento per ripensare ai rapporti tra politica ed educazione, tra i due campi di esperienza sussiste un’indubbia correlazione, in  quanto al centro c’è la formazione dell’uomo e del cittadino. La prima ha finito per utilizzare l’altra come strumento di potere; la pedagogia ha finito per accontentarsi di produrre teorie del tutto prive di qualsiasi mordente operativo o dal semplice e deludente respiro moralistico. La crisi dell’una corrisponde alla crisi dell’altra, in quanto anche la politica ha rinunciato alla propria autonomia accettando di essere subordinata ad altri contesti e si riduce a vivere alla giornata in attesa delle indicazioni che le vengono date dall’esterno e non è in grado di costruire e poi di realizzare una progettualità propria capace di proiettarsi nel futuro in modo significativo (Bertolini 2003).

L’educazione politica non può essere affidata ad un solo ente educativo e non può essere limitata ad un periodo dell’età giovanile, deve diventare una dimensione dell’educazione permanente; ciascuna forma di partecipazione politica degli adulti, nelle varie sedi democratiche, non vada disgiunta da momenti formativi e sia essa medesima vissuta come momento di continua maturazione all’esercizio della sovranità popolare.