Gustafsson ricorda…
di Antonio Stanca
Recentemente dalla casa editrice Iperborea di Milano, con la traduzione di Carmen Giorgetti Cima, è stato pubblicato il romanzo dello svedese Lars Gustafsson Le bianche braccia della signora Sorgedahl (pp. 231, € 15,50). L’opera risale al 2008, Gustafsson la scrisse quando aveva settantadue anni essendo egli nato nel 1936 a Västeras.
Filosofo e matematico, autore di saggi filosofici, Gustafsson ha scritto anche poesie, racconti e romanzi. Ha insegnato per molto tempo Storia del pensiero europeo presso l’Università di Austin nel Texas. Pure in America ha scritto opere di narrativa e, tornato in Svezia, ha continuato ottenendo notevoli riconoscimenti. Ricorrente nei suoi romanzi è il motivo dell’incertezza, del dubbio vissuti dall’uomo moderno di fronte a problemi di carattere esistenziale.
Ne Le bianche braccia della signora Sorgedahl il protagonista, un vecchio docente universitario svedese che ha insegnato Filosofia ad Oxford, ricorda i tempi passati, quelli della sua infanzia e adolescenza a Västeras, dice della sua famiglia, dei suoi compagni di scuola, dei suoi professori, delle persone, dei luoghi, delle esperienze di allora. Quel suo primo passato ricostruisce in ogni elemento, aspetto senza, però, riuscire a chiarirsi una propria posizione rispetto ad esso tanti sono i dubbi che ora, adulto, lo hanno assalito circa la durata, l’estensione del tempo, dello spazio, della vita. In quel docente è possibile riconoscere l’autore che pensa al suo passato, che di niente è ormai sicuro dal momento che tra affermazioni e negazioni si mostra sospeso qui come in altre opere.
Come altrove Gustafsson s’interroga sul valore della storia, della cultura, di quanto compiuto dall’uomo nel pensiero e nell’azione, si chiede cosa significa Dio, il destino, la morte.
Egli non è solo lo scrittore ma anche il filosofo che ricorda e che tante verità cerca tra i ricordi senza mai fissare qualcuna come definitiva.
Della sua prima formazione, compresa quella sessuale, legge pure il lettore ne Le bianche braccia della signora Sorgedahl ma non molto soddisfatto rimane a causa delle continue domande di carattere filosofico che l’autore si pone nel corso della narrazione e delle mancate risposte.
Ad interessarlo, ad attirarlo intervengono, però, quelle descrizioni dei modi di vivere nella vecchia Svezia, degli ambienti, degli avvenimenti che in essa si verificavano e che danno all’opera il tono di una lunga favola.
Abile si mostra Gustafsson in questo senso, poetico diventa spesso il suo linguaggio, suggestivo l’effetto. Sotto gli occhi di chi legge scorre la Svezia degli anni ’50, quando Gustafsson era adolescente, e la scrittura diventa una rivelazione perché lontano, sconosciuto è per il lettore quel mondo fatto di case di legno, di boschi, di fiumi, dove non erano ancora diffuse le automobili né il telefono e la bicicletta era il mezzo di trasporto più usato.
I ricordi dell’autore insieme a quanto gli è giunto dai racconti della madre, che non si distinguono dalle leggende e che hanno attraversato i secoli della storia svedese, acquistano, così, il valore di un documento e pur se spesso alterati da osservazioni e riflessioni filosofiche non smettono d’interessare il lettore, di tenerlo legato.
Lo scrittore riesce meglio del filosofo e ancor più sarebbe riuscito se a quest’ultimo non avesse permesso d’invadere tanta parte dell’opera.
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