Asperger, l’importanza di una diagnosi anche da adulti

Oggi Scienza del 18.02.2020

Asperger, l’importanza di una diagnosi anche da adulti 

Il 18 febbraio è la Giornata internazionale della sindrome di Asperger. Le testimonianze ci dimostrano che comprendersi e dare un nome alla propria diversità è cruciale, a tutte le età.

“Sarebbe utile che qualcuno ti spiegasse perché un’etichetta ufficiale potrebbe esserti utile per il tuo futuro”. A dirlo è Milly, una delle tre giovani ragazze Asperger delle quali parla Fiona F. Bullivant, infermiera specializzata in salute mentale, nel suo ultimo libro. Un ostacolo, forse, risiede proprio nel considerare la diagnosi come un’etichetta negativa. Qualcosa che limita, che resta appiccicato. Perché cercare una diagnosi formale, magari ormai adulti? Se lo si chiede ai diretti interessati, ai tanti adulti nello spettro che possono raccontare la propria esperienza, le parole chiave che emergono sono positive: sollievo, comprensione, accettazione.

Il 18 febbraio, per la ricorrenza della nascita del pediatra Hans Asperger, è stata indetta la Giornata internazionale della sindrome di Asperger. A oggi l’Asperger, inteso come autismo senza disabilità intellettiva, non è più diagnosticato a sé ma incluso nel manuale DSM-5 nei disturbi dello spettro autistico. A ricordarci che si tratta di uno spettro dove le caratteristiche si presentano con diverse intensità, e che quello che da fuori sembra alto funzionamento può essere una facciata costruita con enormi sforzi. Che crolla appena tornati nella sicurezza delle mura di casa.

Autismo, basta stereotipi e più (neuro)diversità.
Perché parlare ancora di Asperger? Perché con media che amplificano in parallelo il racconto di Greta Thunberg – che l’ha definito il suo “superpotere” – e il coming out di Susanna Tamaro, che lo considera una sedia a rotelle invisibile (un’accezione patologica della sindrome che non ha tardato a suscitare la risposta da chi ogni giorno si impegna nella self advocacy) siamo ancora lontani dal raccontare l’autismo in un modo non dico inclusivo, obiettivo complicato, ma che non faccia sentire una persona nello spettro un alieno nel momento in cui legge un articolo che dovrebbe parlare di lui/lei. Sui giornali si continua a scrivere che di autismo/Asperger si è malati, affetti, colpiti da o si soffre. Ma l’autismo non è una malattia. Si riporta come una cantilena che gli autistici non sono empatici, che sono tutti geni come Sheldon o savànt come Raymond di Rainman, che non hanno amici, che non comprendono le relazioni umane, che l’autismo è un disturbo maschile.

Soprattutto si parla sempre di bambini, qualche volta di ragazzi, raramente di adulti. Come se l’autismo scomparisse crescendo. Ma non è così: se nasci autistico muori autistico e la necessità di diagnosi precoci nei bambini, per intraprendere subito un percorso utile, corre in parallelo a quella di una diagnosi che permetta di riconoscersi in età adulta. Per quelle generazioni passate sotto al radar, donne e uomini diversi, che forse mai si sono sentiti come gli altri.

L’etichetta, dunque: ricevere una diagnosi da adulti significa sentire che le proprie differenze hanno un nome. Significa comprendere la propria identità, accettarsi, dare una spiegazione a ciò che riesce bene e a ciò che crea disagio. Sapere che qualcosa è difficile in quanto autistici, e non in quanto sbagliati, vuol dire tirare un sospiro di sollievo e spesso ottenere quella serenità mentale che consente di trovare strade alternative. Per avere successo anche laddove si pensava non si sarebbe riusciti mai. Così, in occasione del 18 febbraio, ho raccolto i pensieri di persone nello spettro (italiane e non) che hanno ricevuto la diagnosi in età adulta, e di una il cui percorso diagnostico è in corso – dopo una lunga lista d’attesa per accedervi, nel Regno Unito – ma ha già avuto un enorme impatto positivo sulla vita.

«La diagnosi per me ha significato consapevolezza e crescita di autostima. Il fatto di dare un significato a quello che prima non capivo di me e che pensavo fosse problematico e sbagliato, mi ha permesso di vederlo sotto un’ottica diversa, di ritenerlo ‘normale’, semplicemente il mio modo di essere, scarico dal pensiero di essere una brutta persona, incapace, socialmente inetta, anche se ben mascherata. La diagnosi mi ha permesso di capire cosa mi toglie energie, cosa mi ricarica, come gestirmi e cosa spiegare a chi mi sta vicino, di chiedere in maniera assertiva di venirsi in contro nella comunicazione e nelle esigenze quotidiane. La mia qualità di vita è migliorata, sono sicura delle mie capacità e molto più aperta e incline a riconoscere e sfruttare i miei punti di forza». (Roberta, 39 anni, diagnosi a 38 anni)

«Ero sicura di essere autistica, perché l’autismo spiegava tutto. Ma ho sentito il bisogno di una conferma formale, di qualcuno che avesse lavorato a lungo con autistici adulti e riconoscesse da fuori quello che io sentivo da dentro da tutta una vita. Quando guardavo gli altri bambini giocare tra loro e non capivo come facessero a sapere cosa fare. Si erano messi d’accordo prima? O quando la temperatura, le sensazioni andavano fuori controllo, e non tolleravo quelle orrende magliette sintetiche con la manica che taglia le ascelle che fanno per le ragazze, o le etichette dei vestiti. Tutto dava così tanto fastidio. Allora tagliavo le etichette e i capelli, vestivo da maschio, e stavo bene anche così, stavo meglio. E poi anni a chiedermi perché le persone facessero tutti quei giri di parole, perdendo tempo, invece di dire quello che pensano chiaramente. Perché mai dire la verità non andava bene? Con la diagnosi sono diventata fiera delle cose che mi riescono bene e mi accetto anche in quelle che mi mettono alla prova. Ora non scatenano più ansie incontrollate, ma la voglia di capire dov’è il problema e di trovare una strada alternativa per poterle fare. La diagnosi ha fatto da fondamenta alla mia voglia di capire di più, di studiare l’autismo, scoprendo anche quanto siano importanti aspetti che non conoscevo. Come la sensorialità: quel sentire tutto fortissimo, senza filtri, un bombardamento costante. Non ero lamentosa nel mio soffrire così tanto i mezzi pubblici, l’ambiente di lavoro, le telefonate, le interazioni, i rumori invasivi, le luci. Non ero lamentosa, ero autistica» (Vittoria, 30 anni, diagnosi a 29 anni)

«Il percorso per la diagnosi l’ho iniziato a settembre, circa cinque mesi fa. Il giorno in cui ho letto delle caratteristiche Aspie ha avuto lo stesso grado di soddisfazione che immagino abbiano avuto i ricercatori al ritrovamento del frammento della Stele di Rosetta: potevano finalmente decriptare i geroglifici. Fino ad allora la comprensione di me si era barcamenata tra contraddizioni inspiegabili, divergenze incolmabili, fastidi non condivisi con nessuno e incomunicabilità emotiva, tant’è che presto era stata abbandonata l’idea (della comprensione). La consapevolezza autistica ha messo in collegamento tutto, ha reso umano ciò che mi sembrava alieno e sta aiutando su così tanti livelli che è difficile spiegare. Mi dà finalmente un senso di appartenenza che in passato avevo cercato, senza riuscire mai a pieno, nella politica, nell’attivismo, nelle altre persone balbuzienti, nelle altre persone gay. Mi ha donato la comprensione per gli altri, o almeno un po’. So perché sono così, accetto e apprezzo la mia diversità e allo stesso tempo accetto quella degli altri, sto sperimentando benevolenza e magnanimità. Mi sta dando gli strumenti per evitare l’ansia, riducendo all’osso le cose che faccio contro la mia volontà ed evitando di espormi alla sensorialità estrema con le cuffie antirumore» (Daria, 39 anni, diagnosi appena ricevuta)

«Sto ancora aspettando la diagnosi ufficiale, ma l’intero processo per me è stato una conferma. Da quando ne ho memoria mi sono rimproverata per fallimenti che ho sempre pensato fossero legati ai miei difetti. Ho attraversato anni di depressione, diversi tentativi di suicidio e sono stata ricoverata diverse volte, per lunghi o brevi periodi. Ho assunto tantissimi farmaci, gestito gli effetti collaterali e gettato via molte ore in terapia cognitivo comportamentale e dialettico comportamentale che non hanno aiutato per nulla (perché la depressione non era clinica, ma situazionale. 16 anni di diagnosi sbagliate dopo – dal disturbo bipolare al disturbo depressivo maggiore fino al disturbo da stress post-traumatico complesso, ho scoperto ‘per sbaglio’ di essere autistica durante la valutazione di mio figlio. È stato straordinario. C’è un motivo per cui fatico in determinati ambiti, c’è un motivo se sono come sono. E ha un nome! E ci sono altre persone con tratti simili! Sono in pace con me stessa come non lo sono mai stata» (Louise, 32 anni, percorso diagnostico in corso)

«Ricevere la diagnosi di sindrome di Asperger è stata una rinascita, un momento in cui ho rivisto molto della mia vita sotto una luce differente e ho finalmente iniziato ad accettarmi» (Luisa, 36 anni, diagnosi a 31 anni)

«Sono appena stata diagnosticata. Lo sospettavo da quando ne avevo 35 ma la maggior parte delle informazioni accessibili, finora, parlava di bambini. Di recente ho deciso di approfondire bene la questione, perché stava avendo degli effetti sul rapporto con il mio compagno. Oggi si trovano tanti blog di donne autistiche (e donne della mia età). È un viaggio intenso, ri-contestualizzare la mia vita nell’ottica dell’autismo e vedere l’infinità di ruoli che ha avuto – a volte limitandomi – ma anche come sono riuscita, per tutta la vita, a farcela trovando strade alternative. Sto continuando a scoprire nuove cose e rimanere stupefatta» (Eris, 53 anni, diagnosi appena ricevuta)

«Per me la diagnosi è stata come tirare un sospiro di sollievo, perché finalmente avevo trovato il mio posto nel mondo, la mia misura. Fino a prima mi sentivo un ingranaggio del sistema che in qualche modo veniva fatto girare, ogni tanto facendo scintille magari, spesse volte rompendosi, ma lo si faceva girare. Il post-diagnosi mi ha portato prima a una fase di smarrimento, speranzoso che forse qualcosa improvvisamente cambiasse. Quando poi ho capito il potere della diagnosi, cioè l’essere una specie di ‘voce costante’ che mi ricorda ‘da dove vengo e dove devo andare’, ecco che allora la prospettiva cambia. Da quando ho la diagnosi sono una persona che fa cose più interessanti con persone per me più interessanti, e direi che già così il senso della vita prende un po’ più forma di prima». (Giovanni, 35 anni, diagnosi a 33 anni).

«Ho una figlia di 20 anni, Asperger, e una di 16, neurotipica. Per la prima, diagnosticata a 12 anni, cerco, leggo, studio e frequento parent training finché un giorno, a Verona, di fronte a un elenco di caratteristiche degli Asperger, per la prima volta mi rendo conto che le ho quasi tutte. Una sorta di insight, illuminazione. E se anche io lo fossi? Ma come, non me ne sono mai accorta pur leggendo così tanto e avendo mia figlia sotto il naso? Eppure non avevo mai visto la mia neurodiversità come Asperger, perché ero concentrata a vedere se i libri potessero raccontare la difficoltà che avevo con mia figlia. Faccio il test. Mi confronto con due psicologhe e infine uno psichiatra, che mi diagnostica.

Un mese fa ho consultato per lavoro un ulteriore psichiatra, forense, che non solo ha confermato la diagnosi ma mi ha dato per la prima volta un inizio di ‘manuale di istruzioni’ personalizzato. Perché siamo tutti diversi e, superata la difficoltà della diagnosi e la liberazione da anni e anni di sofferenza, bisogna riprendersi in mano a pezzettini e rimettere insieme il puzzle. Poi colorarlo, per liberare finalmente tutto quello che abbiamo nel cuore. È difficile trovare qualcuno che ascolti un Asperger in piena, sono quasi logorroica a volte nel mio bisogno di dire chi sono, che esisto, che mi sono guadagnata un posto nel palcoscenico della vita. Ho trasbordato, ho invaso, dopo la consapevolezza, per riprendermi quanto avevo perduto. Poi arriva il momento dello shutdown, mi accorgo che sono troppo, che la gente non mi vuole, che sono sola e rimango lì inebetita di nuovo. Passano i giorni e riparto… c’è comunque una gran voglia di vivere, di gustare questa vita, di goderne in abbondanza, a modo mio, senza invadere o assalire gli altri, ma nemmeno continuando a parlare sottovoce…» (Mascia, 50 anni, diagnosi a 47 anni).

di Eleonora Degano