Prove di smantellamento

Francesco G. Nuzzaci

Tra le pieghe dell’emergenza del Coronavirus si sono registrati due concomitanti eventi.

1. Il primo riguarda un disegno di legge sull’abolizione della chiamata diretta o chiamata per competenze dei docenti, la cui titolarità la legge 107/15 l’ha incardinata negli ambiti territoriali: a giudizio della sua proponente pentastellata, nell’intervista concessa a Orizzontescuola il 19 luglio 2019, “un dispositivo che conferisce ai dirigenti scolastici di fatto la possibilità di ingerirsi nella libertà di insegnamento di ciascun docente, tutelata dalla costituzione”.

Acquisita l’approvazione del Senato, con le “reazioni dei sindacati confederali e dei sindacati di base più che positive”, e passato all’esame della Commissione cultura della Camera dei deputati, pare però essere destinato all’archiviazione. Ciò nonostante, non vi sarebbe motivo per dolersene più di tanto, neanche per i Partigiani della scuola pubblica, di cui la docente e ora senatrice della Repubblica è stata membro attivo; che – delusi – pretendono le dimissioni della ministra Azzolina e del presidente della Commissione Luigi Gallo, anch’essi appartenenti al medesimo Movimento politico.

Non vi sarebbe motivo, poiché  tale istituto – insieme ad altri che intendevano qualificare l’aborrita tecnocratica legge renziana – è già stato fatto indirettamente defungere dal comma 796, articolo unico, della legge 145/18 (legge di bilancio per il 2019). Recita infatti il predetto comma che “a decorrere dall’anno scolastico 2019/2020 le procedure di reclutamento del personale docente e quelle di mobilità territoriale e professionale del medesimo personale non possono comportare che ai docenti sia attribuita la titolarità su ambito territoriale”: con una copertura legale ex post dell’abusiva disapplicazione lucrata dal CCNI sulla mobilità, susseguente all’accordo tra l’allora ministro Bussetti e i sindacati della scuola, e dovendosi comunque prendere atto che esso – meramente opzionale per i dirigenti scolastici – risulta essere stato  messo in pratica in misura marginale per le oggettive difficoltà derivanti dai vincoli di sistema.

2. Analoga sorte aveva investito il c.d. bonus premiale: suo depotenziamento e confluenza nell’indistinto fondo  per il miglioramento dell’offerta formativa – che raccoglie tutte le risorse rimesse alla contrattazione decentrata d’istituto –  ad opera del CCNL di comparto del 19 aprile 2018, con successiva sanatoria della legge di bilancio per il 2020 (comma 249, articolo unico, legge 160/19), che in più ne consente testualmente l’accessibilità all’intero personale della scuola, docente e ATA, a tempo indeterminato e a tempo determinato.

E lo stesso è a dirsi per quel che sarebbe ancora “da rivedere”, ovvero “la parte relativa alle prerogative degli organi collegiali che sicuramente devono recuperare spazio nelle scelte inerenti alla didattica e all’offerta formativa rispetto al dirigente scolastico che ancora determina le linee di indirizzo della scuola”.

Abbiamo non infrequentemente avuto modo, in questa rivista e altrove, di evidenziare la non necessaria enfasi posta dalla legge 107/15 sulla figura del dirigente scolastico e apprezzato, nella versione finale, gli opportuni correttivi di primigenie disposizioni inutilmente muscolari. Resta, indubbiamente, l’anomalia che sottrae per tabulas al Consiglio d’istituto, attribuendolo al dirigente scolastico, il potere di indirizzo politico, relativo alle scelte generali e/o alle priorità dell’istituzione scolastica, pur nel rispetto dei vincoli nazionali e nei limiti di bilancio. Senonché, a una più attenta lettura del testo, l’anomalia si rivela più apparente che reale; e – prendendosi spunto da un passaggio del Piccolo principe – l’essenziale si rende visibile agli occhi.

Difatti, spetta al Consiglio d’istituto l’approvazione del Piano triennale dell’offerta formativa, così come la sua possibile revisione annuale. Il che significa che la determinazione volitiva finale, intestata al Consiglio d’istituto, non può tradursi in una semplice presa d’atto di una decisione autocratica del dirigente. Sicché, per evitare di impantanarsi in un conflitto defatigante, se non paralizzante, con il Consiglio d’istituto – sino a quando lo stesso non debba essere sciolto dall’Ufficio scolastico regionale, con contestuale nomina di un commissario ad acta (oppure fino a quando non debba piuttosto il dirigente scolastico essere trasferito altrove per conclamata incompatibilità ambientale) –, il lemma approvato deve intendersi, ragionevolmente, inclusivo di un preliminare accordo su quello che è “il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia”.

La pari necessità di previe interlocuzioni  e di un’adeguata istruttoria, prima dell’emanazione dell’atto di indirizzo, vale nei confronti del Collegio dei docenti; che altrimenti – e a prescindere da tutt’altro che ipotetiche sue resistenze – potrebbe trovarsi nella situazione di dover elaborare il – complesso, articolato, plurale – piano triennale dell’offerta formativa sulla base di non condivise decisioni unilaterali e autoritative.

Così come vale per i mancati contatti, incontri, negoziazioni – sempre sulla bozza, scritta a matita, dell’atto d’indirizzo – con “gli enti locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti sul territorio”, che il dirigente scolastico deve necessariamente “promuovere”; così come deve tenere “altresì conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni dei genitori e, per le scuole secondarie di secondo grado, degli studenti”.

A parte l’esplicito e inequivoco dettato normativo, dovrà egli poi ricordare che tra gli elementi-criteri-parametri della sua valutazione sono inclusi la “direzione unitaria della scuola, promozione della partecipazione e della collaborazione tra le diverse componenti della comunità scolastica, dei rapporti con il contesto sociale e nella rete di scuole” e, non meno, “l’apprezzamento del proprio operato all’interno della comunità professionale e sociale” (comma 93).

Dunque, lo spazio degli organi collegialiè già tutto a loro – più che libera – doverosa disposizione.

Rimarrebbe ancora in piedi la facoltà del dirigente di assegnare i docenti a posto comune o di potenziamento. E qui l’intervistata aggiunge di aver presentato un – risolutivo – “altro disegno di legge, fondamentale per prevenire fenomeni di mobbing all’interno delle scuole e casi di burnout nei docenti sui reclami stragiudiziali avverso i provvedimenti dei dirigenti scolastici”.

3. Elaborato al tempo della maggioranza giallo-verde del Conte 1, pensavamo che si fosse volatilizzato come le labili foglie al vento d’autunno, e di non doverne più parlare. E invece no, avendo appreso ieri l’altro che ha avuto avvio, nella Commissione Istruzione al Senato, la sua discussione.

Reca l’anodino titolo di “Modifica all’articolo 25 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di reclamo al dirigente preposto all’ufficio scolastico regionale”,ma  la sua traduzione è  Ricorso rapido contro il preside-sceriffo.

Se, in luogo di essere mandato al macero, dovesse tradursi in legge, l’attuale assetto (non più) autonomistico delle istituzioni scolastiche risulterebbe stravolto dalle fondamenta e, a fortiori, verrebbe meno la giustificazione della qualifica dirigenziale di chi non avrebbe più ragione di fregiarsene. E non è neanche questo il punto.

Sotto l’ipocrita foglia di fico della “tutela deflattiva del contenzioso” – come si legge nella relazione di accompagnamento – sono sì “fatti salvi” i commi da 1 a 4 del predetto articolo (qui ininfluenti i successivi 5-11), riguardanti i poteri attribuiti alla dirigenza scolastica. Ma sono poi in fatto neutralizzati dall’aggiunta dei commi 11-bis, ter, quater, quinquies e sexies: al di cui tenore, “avversotutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro e i provvedimenti emanati dal dirigente scolastico”, compresi quelli disciplinari, di formazione delle classi, loro assegnazione ai docenti (e ovviamente su posto comune o sul potenziamento) … e  via delirando, entro cinque giorni dalla pubblicazione all’albo o dalla notifica agli interessati, “è ammesso un reclamo motivato al dirigente preposto all’ufficio scolastico regionale”.

Questi, entro il successivo termine perentorio di quindici giorni, in caso di accoglimento annulla o sostituisce l’atto o il provvedimento impugnato e lo comunica altresì all’Ufficio per i procedimenti disciplinari perché si attivi in caso d’inerzia del dirigente scolastico nell’eseguire la decisione. Decisione resa “su parere conforme” di una costituenda commissione di tre – oggi, e presumibilmente per almeno un lustro, introvabili – dirigenti tecnici. Che, si suppone in via esclusiva e dilatando oltre ogni ragionevole misura il proprio orario di lavoro, dovrebbero passare in filigrana tutti gli eterogenei atti di gestione dei de-dirigenzializzati ex-colleghi di pari seconda fascia e posti sotto loro tutela: dalla sanzione disciplinare inflitta, al contestato provvedimento che sposti un collaboratore scolastico in un diverso padiglione dell’edificio, o che abbia sottratto a una inviperita docente l’aula in cui si sia annidata da tempo immemore.

Subito è giunto il plauso di una sigla sindacale rappresentativa nel comparto ad augurarsi  che il provvedimento sia approvato senza stravolgimenti, per frenare  gli abusi “in numerose occasioni commessi da alcuni presidi nei confronti dei docenti”, così giustificando la “necessità di modificare il sistema”. E, nella circostanza, si ricorda la circolare con cui l’USR della Toscana, in seguito a due ordinanze della Corte di cassazione, ha ammonito i dirigenti scolastici dal sospendere dal servizio i docenti, sottolineando che la competenza per questo tipo di sanzione disciplinare spetta ai preposti uffici di ciascun Ambito territoriale.

Verrebbe di affermare: non provate a capire, il tutto è irrimediabilmente senza senso.

Dal primo settembre 2020 avremmo in servizio permanente effettivo diciotto, al momento chimeriche, triadi a sbrogliare, in media, un contenzioso di circa quattrocentocinquanta istituzioni scolastiche; e che, nella sostanza, saranno preposte a dirigerle in remoto, quindi anche dopo che riuscirà debellato il morbo venuto dalla Cina.

E passi pure, perché può esserci una lucida follia, di intrinseca coerenza, nella perdurante ossessione nei confronti dei satrapi dirigenti scolastici.

Ma è solo il frutto di una spaventosa superficialità non realizzare che il contenzioso, in luogo di deflazionarsi, lieviterebbe in misura esponenziale, potendosi contare su uno strumento veloce, a costo zero, direttamente azionabile senza doversi rivolgere a un legale e sempre impregiudicato il ricorso al giudice del lavoro. Con quale funzionalità delle istituzioni scolastiche lasciamo al giudizio di chi voglia mettere in moto quei meccanismi di riflessione, e anche d’inibizione, che gli umani denominano pensiero.

4. Potrebbe però funzionare, e la conflittualità nella scuola risolversi come d’incanto, qualora “il preside” dismetta le vesti di dirigente pubblico preposto in posizione apicale a una “pubblica amministrazione” (art. 1, comma 2, D. Lgs. 165/01), a un tempo ente dotato di una propria soggettività giuridica, ma entro i limiti dell’autonomia funzionale, e organo dello Stato, cioè di un più vasto apparato amministrativo deputato alla produzione di un pubblico servizio su tutto il territorio nazionale; suo rappresentante legale e responsabile esclusivo, in termini di giuridica esigibilità, della efficiente-efficace-economica progettazione ed erogazione di un’offerta formativa di qualità e inclusiva, perciò soggiacente all’esplicito “obbligo di adottare procedure e strumenti di verifica e valutazione della produttività scolastica e del raggiungimento degli obiettivi”,costituenti parametri – e limiti – alla stessa “libertà d’insegnamento” (art. 21, comma 9, legge 59/97): ben prima che si affacciasse sulla scena l’aborrita performance brunettiana, col sequitur della non meno repellente legge 107.

Le dismetta, per indossare quelle di membro di una fantasiosa autoconsistente “comunità educante”, esercitandovi “in forma differenziata l’unicità della funzione docente”:formula, tanto suggestiva quanto oscura, coniata mezzo secolo fa e inopinatamente oggi assurta a valore pseudo-normativo.

Vi agirebbe come primus inter pares, aquesto punto meglio legittimato da un’elezione diretta e ad tempus, concorrendo alla celebrazione dei riti di una democrazia scolastica quale fine in sé, ovvero libera di scegliersi i fini in assoluta autoreferenzialità, sciolta da qualsivoglia vincolo che non sia quello che, sovranamente, si determini di autoimporsi.

E, a ben riflettere, neanche qui difetterebbe la logica: nella misura in cui impone la coerente, e stringente, conseguenza della formale abolizione di una dirigenza segnata alla nascita dall’indelebile stigma di figlia di un dio minore ad opera del preistorico CCNL di comparto del 03.04.1995, il cui articolo 32 istituì la “distinta area della specifica dirigenza scolastica nell’ambito del comparto scuola, non assimilabile alla dirigenza regolata dal decreto legislativo 29/93”.

E’ il ceppo virulento su cui impetu legis (articolo 21, comma 16 del D. Lgs. 165/01) si è poi innestata la sublime “specificità” della quinta area contrattuale, dopo vent’anni riprodotta sotto le mentite spoglie di un’apposita sezione del – fintamente – comune CCNL Istruzione e Ricerca: sempre una sorta di retrobottega per farvi stazionare un sottoprodotto  altrimenti a rischio di infettare le altre dirigenze vere, quelle che a tutt’oggi godono di una retribuzione doppia rispetto ai colleghi – si fa per dire – aggettivati, e senza condividerne la congerie delle innumerevoli responsabilità.