Riflessioni dalla zona rossa

Formazione all’…insicurezza
Riflessioni dalla zona rossa

di Bruno Sozzi

Piacenza, domenica 8 marzo 2020

Dopo le prime anticipazioni di mercoledì 3 (chiusura delle scuole sino al 15 marzo) di primo mattino arriva la certezza che il Corona virus va presa molto sul serio! Dalla rassegna stampa apprendo della conferenza stampa del Capo del Governo e dell’assalto ai treni nella stazione di Milano. La nipote dalla Sardegna mi chiama preoccupata e, nel dialogo, mi conferma l’avvenuto arrivo, nella settimana precedente, di numerosi “continentali” proprietari di seconde case “fuggiti” dal temuto pericolo di contagio. I tanti dibattiti ruotano attorno a termini precisi: informazione,consapevolezza del pericolo e responsabilità verso terzi.

Nel primo pomeriggio nella trasmissione In ½ ora emerge una buona dose di irresponsabilità di tanti giovani “assembrati” dopo le ore 23 in una piazza di Roma; si abbracciano, minimizzano e ironizzano sulle misure di cautela suggerite dalle autorità e, da non credere, affermano pure: se non fossero chiuse le scuole noi non saremmo qui (!?). I due esperti virologhi presenti al dibattito commentano preoccupati e riconfermano il ruolo della responsabilità individuale.

A questo punto la mente di un formatore alla sicurezza (sul lavoro) del personale scolastico e delle “future generazioni” va al primo comma dell’art. 20 del d.lgs, 81/2008 (Obblighi dei lavoratori) sempre presentato e sottolineato come un caposaldo, prima di tutto culturale: Ogni (lavoratore) deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quelle altre persone (presenti sul luogo di lavoro), su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti (dal datore di lavoro).

La funzione dell’«insicurezza»

Nella presentazione dei 4 termini usati spesso impropriamente come sinonimi (pericolo, rischio, incidente, infortunio) ho sempre sottolineato che per poter possedere la sicurezza di comportamento occorre essere anche dubbiosi e insicuri: sicurezza e insicurezza sono strettamente connessi e non vi può essere educazione alla sicurezza che non sia anche educazione all’insicurezza, cioè al dubbio e alla critica. Il dubbio mantiene quel clima di tensione che suscita le energie migliori dell’uomo mettendolo alla prova attraverso il rischio calcolato, per restituirgli poi integro e più ricco il senso di sé, la fiducia e la sicurezza del proprio io. Il dubbio non deve ridursi a paura e timore (con il decadimento del tono vitale, un senso di sfiducia, di povertà interiore); il dubbio e l’insicurezza devono avere una funzione animatrice nel senso di problematizzare l’esperienza umana, per poter operare le scelte giuste che sgombrino il cammino da ciò che ci si oppone e ci insidia.

Sull’argomento ho spesso esemplificato: se vado in bicicletta sulla ciclabile rallento il mio stato di attenzione (mi sento abbastanza sicuro di non incontrare pericoli), diversamente da quando percorro una strada con a destra una fila di auto dalle quali posso attendermi l’apertura disattenta di una portiera (mi sento insicuro).

Aperti una visione d’insieme

Queste considerazioni ci confermano che l’educazione è una questione importante e complessa, risultato di azioni intenzionali, specifiche (età e ambiente) e mirate all’obbiettivo. E’ indispensabile un buon equilibrio tra prudenza e capacità di dominare paure (appresa durante le prove di evacuazione!), oscillando sempre tra sottovalutazione e sopravalutazione del rischio o tra superficialità ed eccesso di cautela; spesso non riusciamo a reagire razionalmente e sbagliamo sia a  non preoccuparci affatto che a preoccuparci troppo. 

E’ comunque indispensabile una corretta e completa formazione/informazione e la visione d’insieme propria dell’uomo pienamente umano. Per questo l’OMS nel suo recente rapporto “A future for the worldd’s chidldren?” ci ricorda le tante attuali sfide: i cambiamenti climatici e gli stili di vita delle nazioni ricche che provocano il degrado ambientale, la malnutrizione diffusa, i conflitti e le migrazioni…E proprio oggi il Papa durante l’Angelus ha ringraziato quanti, in piazza S. Pietro, hanno invitato con un manifesto a non dimenticare quanto accade nella provincia siriana di Idlib.

Per chiarire il concetto riporto nel riquadro una “favola” e la sua “morale” accolta sempre con favorevole sorpresa dai miei discenti.


La meravigliosa storia dell’elefante

Nel tempo antico, in un paese dell’Arabia Felice, regnava il califfo Omar an-Numàn, uomo ricchissimo e benvoluto da tutti per la sua saggezza. Il califfo Omar an-Numàn era di larghe vedute e non si arrestava all’apparenza delle cose. Prima di esprimere un giudizio si sforzava sempre di capire le relazioni e i legami che ci sono tra i fatti, anche se a prima vista questi possono sembrare isolati e diversi. Il califfo perciò veniva rattristato dalla grettezza di spirito dei suoi ministri, che non vedevano più in  là del loro naso. «Va’ in giro per il mio regno -disse un giorno il califfo ad un suo servo fidato- e trova, se ti  riesce, tutti quegli uomini sfortunati che sono ciechi fin dalla nascita, e che non hanno mai sentito parlare degli elefanti». Il servo fedele eseguì l’ ordine e dopo qualche tempo ritornò con alcuni uomini ciechi fin dalla nascita. Essi erano cresciuti in villaggi sperduti tra le montagne; perciò degli elefanti non  avevano mai sentito parlare, e non ne supponevano nemmeno l’ esistenza. Il califfo Omar an-Numàn fece allora preparare un gran ricevimento e invitò a cena tutti i suoi ministri. Alla fine del banchetto il califfo batté le mani e da una grande porta di bronzo entrò nella sala un gigantesco elefante. Subito dopo, da un’ altra porticina, avanzarono i ciechi. «Mi sapreste dire che cos’è un elefante?» chiese Omar an-Numàn tra lo stupore dei convitati. «No. -risposero in coro i ciechi- È la prima volta che sentiamo questa parola». «Ebbene -riprese il califfo -di fronte a voi c’è un elefante. Toccatelo, palpatelo, cercate di comprendere di cosa si tratta. Colui che darà la risposta giusta riceverà cento dinàr d’oro». I ciechi si affollarono attorno all’animale e cominciarono a toccarlo con attenzione, soffermandosi via via a riflettere sulle sensazioni ricevute. Un cieco stava lisciando da cima a fondo la grossa zampa dell’animale; la pelle dura e rugosa gli sembrava pietra, la forma era quella di un lungo cilindro. «L’elefante è una colonna» esclamò soddisfatto, certo di aver guadagnato per primo la ricompensa.  «No! -gridò un secondo cieco -L’elefante è una tromba!» Egli aveva toccato la proboscide e rivolto la sua attenzione solo a questa parte dell’animale.  «Niente affatto. L’elefante è una corda!» disse il cieco che aveva toccato la coda.  «Ma no! L’elefante è un grosso ventaglio» ribatté chi aveva toccato l’orecchio.  «Vi sbagliate tutti; l’elefante è un pallone gonfiato! » urlò il cieco che aveva toccato la pancia. Tra i ciechi regnava il disaccordo perché ognuno aveva la presunzione di conoscere l’intero elefante pur avendone toccato solo una piccola parte Il saggio Omar an-Numàn, soddisfatto , si rivolse allora ai ministri: «Chi non si sforza di avere della realtà una visione più ampia possibile, ma si accontenta degli aspetti separati e parziali senza metterli in relazione tra loro, si comporta come questi poveri ciechi. Egli potrà conoscere a fondo tutte le rughe che ci sono in una zampa dell’elefante, ma l’intero elefante non lo vedrà mai; anzi, non saprà nemmeno che esiste un siffatto animale».