Della didattica e della giusta distanza

Della didattica e della giusta distanza

di Alessandra Condito

Da settimane non si fa altro che parlare, come è giusto che sia, di didattica a distanza.

Se ne parla con toni diversi e da prospettive private e professionali differenti.

C’è l’entusiasmo di chi vede finalmente avverarsi il sogno di una scuola digitale, “al passo coi tempi” e chi insiste nel dire che “questa non è scuola. La scuola si fa sui banchi. Punto”. Questo per dire solo delle posizioni estreme. In mezzo, ovviamente, tante sfumature.

Le prospettive con cui si affronta il tema della didattica a distanza sono altrettanto variegate, perché il tema coinvolge dirigenti scolastici, docenti, educatori, studenti, genitori, ma anche studiosi della società che, in un tempo “in cui siamo tutti sulla stessa barca” di fronte al virus, ci ricordano che le barche non sono tutte uguali. E che ci sono interi pezzi del paese per i quali usufruire della didattica a distanza è impossibile, per mancanza di strumenti fisici e culturali che ne consentano la fruizione.

Ma non è di questo che voglio scrivere. Altri meglio di me, e con più autorevolezza, lo hanno fatto. Vorrei per un momento concentrarmi sul tema della distanza, che è poi tema fondativo di ogni relazione.

Distanza tra me e l’altro da me, distanza tra me e l’oggetto amato desiderato irriso temuto, distanza tra me e il diverso da me. Qual è la giusta distanza in ognuno di questi rapporti? Quanti centimetri di distanza dall’oggetto amato, affinché mi ami senza inglobarmi a sé, quanti chilometri dall’oggetto temuto, affinché non mi faccia del male, quanti metri dal diverso da me, affinché ci sia lo spazio per conoscersi senza provare (reciproca) paura?

E nella scuola, qual è la giusta distanza?

“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.” (Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, capitolo XXI)

Metafora abusata, mi si dirà. Concordo. Ma la risposta alla domanda successiva forse non è così risaputa.

Siamo sicuri che nella scuola docenti e studenti abbiano trovato la “moderata distanza reciproca”? Quella giusta misura che consenta, dovendo condividere uno stesso spazio, di provare piacere a fare delle cose insieme, cose che, nella scuola, hanno a che fare con la costruzione di conoscenze e competenze, che non è roba da poco?

Da persona che da più di trent’anni lavora nel mondo della scuola mi trovo a rispondere a questa domanda come farebbe qualsiasi persona che, anche solo per una parte limitata della propria vita (e chi non lo ha fatto?) sia stato in una scuola o abbia i figli che ancora la frequentano.

La risposta è: dipende, e per lo più dipende dal caso. Se sei fortunato avrai incontrato docenti capaci di interessarsi ai propri studenti, non come oggetti da riempire e valutare, ma come soggetti intenzionali con cui è piacevole, oltre che necessario, costruire relazioni, perché è solo nella relazione che si costruiscono i saperi, se per essi non intendiamo nozioni ma mondi.

E allora. Cosa c’entra tutto questo con la didattica a distanza?

C’entra. C’entra come non mai. Ed è qui, non sui dispositivi e sulle piattaforme, che si giocherà la tenuta di questi mesi di “scuola”.

Solo ai docenti capaci di tenere la giusta distanza dovremo essere grati se, alla fine di questo forzato isolamento, i nostri ragazzi non avranno perso il gusto (forse anche il dis-gusto, perché per provare disgusto bisogna comunque fare lo sforzo di provare) di apprendere.

Si è molto parlato, in queste settimane, di docenti impegnati a formarsi sull’uso di piattaforme digitali per le quali molti di loro, indipendentemente dall’età, avevano provato se non disgusto di certo disinteresse fino a pochi giorni prima.

Alcuni organi di stampa scrivono che ci voleva il virus per svegliare dal torpore la classe docente italiana, ma siamo sicuri che i nostri docenti stessero davvero dormendo o peggio ancora che fossero incapaci, nonostante gli sforzi profusi, di apprendere l’uso delle nuove tecnologie nella didattica, come diciamo a fine anno di quegli studenti che “poverini, si impegnano ma non ci arrivano”?

Dal mio osservatorio ho visto docenti, compresi i più refrattari, imparare in pochi giorni, al più in una settimana, l’uso di dispositivi utili a svolgere didattica a distanza, seppure con gradi diversi di interazione e complessità. Come a dire, se serve, ho gli strumenti culturali per imparare. Detto altrimenti, se finora non ho utilizzato gli strumenti digitali, è perché ho ritenuto che altri mediatori didattici fossero più funzionali al setting di apprendimento in uso. Non inerzia dunque, ma intenzione. C’è una bella differenza, se ne converrà.

Diversamente, a più di un mese dalla sospensione delle lezioni, dal mio stesso osservatorio vedo ancora docenti in difficoltà rispetto alla giusta distanza da tenere con gli studenti.

Ci sono i docenti (gli stessi che a scuola entrando si stringono nei loro cappotti come in un’armatura) che, timorosi che la rete li faccia intravedere vulnerabili, amplificano la distanza con i propri studenti, scegliendo gli strumenti di comunicazione più asettici e mantenendo tempi contingentati per le lezioni e le consegne dei compiti. In genere, dopo pochi giorni, cala un gelo che bisogna accendere il calorifero anche se è primavera.

Ci sono i docenti (per lo più quelli che a scuola si fermano a parlare nei corridoi con i ragazzi, e che dai ragazzi sono cercati) che, preoccupati di non dare abbastanza, rischiano di pungersi coi propri stessi aculei. Incapaci di fissare la giusta distanza, lavorano sedici ore al giorno, rispondono alle chat, inviano compiti su classroom, registrano video su youtube, si collegano la mattina via skype. Sono ammirevoli, ma rischiano di farsi male. Sono per lo più giovani, impareranno. Ne hanno il desiderio e la capacità. Hanno solo bisogno di più tempo.

Infine ci sono gli altri, forse ancora una minoranza, che hanno già imparato a gestire la (didattica a) distanza. Quelli che, per esperienza e attitudine, avevano già trovato, nella scuola e nella vita, la “giusta posizione”.

E’ davvero difficile saper stare nella relazione, ancor più essere capaci di costruirne. Ma è proprio questa la competenza richiesta al docente: saper costruire una relazione tra sé, lo studente e l’oggetto della conoscenza, sapendo che prima o poi il docente dovrà farsi da parte, ma non dovrà venir meno, pena il fallimento dell’azione formativa, la relazione tra lo studente e il sapere.

E’ per questo che saper mantenere la giusta distanza tra docente e discente è così importante. E al contempo è così maledettamente difficile. Però è su questo che bisognerà investire e ricominciare a confrontarsi in futuro. Non su computer e dispositivi digitali da donare alle scuole e alle famiglie meno abbienti. Certo è lodevole e giusto che si investano milioni di euro per sopperire al digital divide, sebbene questo tema si porti dietro miliardi di osservazioni che meriterebbero altri articoli e altri approfondimenti. Perché solo ora? Non sapevamo che in Italia ci sono, tra Nord e Sud, differenze abissali in ordine alla copertura digitale ma ancor più alla copertura culturale? E perché, oltre ai tablet, non dare alle famiglie meno abbienti libri giochi colori? Un tablet e 10 libri per ogni casa. E’ così complicato?

Domande che rimarranno inevase, come forse inevasa rimarrà la domanda di autentica formazione pedagogica per i docenti di tutti i gradi di scuola, dall’infanzia alle superiori.

Se vogliamo che la didattica, in presenza o a distanza, funzioni, è sulla professionalità docente e sul suo sapere pedagogico che dovremo investire. Non facciamo l’errore, già fatto in anni passati, di investire in via preferenziale sul digitale. Gli strumenti digitali sono un mezzo. Servono? certo che servono, in alcuni momenti più che in altri, e i docenti italiani hanno dimostrato in questi giorni di sapersi formare al loro utilizzo senza bisogno di spendere neanche un euro dei soldi pubblici. Ricordiamoci che la scuola ha bisogno di saperi che hanno a che fare con il corpo, l’uso modulato della voce, l’ironia, i contenuti essenziali derivati da libri, letture, sottolineature, numeri e rette che si incontrano. Distanze che via via si accorciano.

Su questo (soprattutto) bisognerà investire quando proveremo a ricostruire il Paese. Scuola, Ricerca e Sanità. Tre spazi da difendere per sempre dal freddo e dal dolore.