La didattica “a distanza” e gli esami di Stato “in presenza”

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La didattica “a distanza” e gli esami di Stato “in presenza”, tra modernità e modello socratico

a cura di Pasquale Annese

Questo tempo ci renderà migliori!

Questo il mio #hashtag, da quel fatidico 5 marzo 2020, giorno in cui molti dirigenti scolastici, me compreso, non hanno potuto più presidiare in presenza le proprie istituzioni scolastiche. Dovendomi però ricredere, man mano che s’infittiva il mare magnum di esternazioni pro e contro la didattica a distanza (più contro che pro), considerata il nuovo male oscuro della scuola italiana, da relegare quanto prima in soffitta, in ogni caso prima dell’avvio del prossimo anno scolastico, in tempo da non contagiare in maniera irreversibile la didattica in presenza. Così come dover assistere, specie negli ultimi giorni, a reiterate richieste di svolgimento degli esami di Stato in presenza per ridare dignità e sacralità, sia pur simbolica, ad un vento storico così importante per gli adolescenti e per tutto il mondo della scuola.

Esternazioni cui neanche questa volta potevano sottrarsi in primis sindacalisti, ma anche saggisti, scrittori, giornalisti, anche di autorevoli testate locali e nazionali. E giù un profluvio di argomentazioni tese a svilire, se non a demonizzare, la didattica a distanza, o ad auspicare una quanto più repentina ripresa delle lezioni in presenza, o quanto meno dei prossimi esami di Stato. #Hashtag: nessun surrogato digitale può sostituire un’esperienza in presenza. Mi riferisco all’articolo comparso sul Corriere della Sera a firma di Paolo Giordano, autore del libro “La solitudine dei numeri primi”, il quale, nel richiamare legittimamente il governo a non mettere la scuola in fondo alle priorità del paese, evoca una prova orale degli esami di stato in carne ed ossa, così come quella da lui vissuta, nemmeno tanti anni fa, al termine del ciclo di studi. O altre missive, questa volta più mirate verso l’attuale Ministro, tese ad elencare le innumerevoli criticità che la didattica a distanza produce, senza nel contempo lesinare richieste di indicazioni più tempestive sullo svolgimento di esami e scrutini, salvo poi lamentarsene perché anticipatarie di un esito oramai scontato di un’ammissione di massa che potrebbe demotivare i ragazzi due mesi prima del termine dell’anno scolastico.

Insomma tutto, e il contrario di tutto, dove ognuno sente in cuor suo di dover esprimere la propria opinione, sia pur per evocare scenari ad oggi smentiti dalla storia, ma quel che è peggio, a volte abbracciando visioni nostalgiche e decontestualizzate degli eventi, che richiederebbero una valutazione meno manichea e più laica delle opzioni in campo. Trascurando tra l’altro l’incontrovertibile circostanza che, volente o nolente, di didattica a distanza, almeno fino al prossimo settembre, ma realisticamente anche oltre, bisognerà nutrirsi se si vorrà in qualche maniera rendere compatibili entrambi i diritti costituzionalmente garantiti alla salute ed all’istruzione.

Quando si afferma che la didattica a distanza non può sostituire la didattica in presenza si dice una cosa ovvia e scontata. Chi può mettere in discussione la valenza formativa ed educativa di un rapporto vis a vis tra il docente ed il discente, nonchè le sue implicazioni di natura emotiva, empatica, relazionale: tutti elementi alla base di un approccio olistico al sapere. Chiunque abbia almeno per una volta varcato la soglia di un’aula scolastica (cioè tutti, visto che siamo stati tutti studenti), e chiunque abbia nella sua vita letto, non grandi trattati, ma brevi saggi di psicologia e pedagogia (e qui il campione si restringe drasticamente), sa che la lezione è un momento talmente complesso, che non può essere relegato a mera trasmissione di saperi mediati da un audio ed un viso da remoto, ma richiede atteggiamenti, sguardi, posture, difficili da riprodurre in ambienti virtuali. Richiede, cioè un approccio che inevitabilmente lambisce, sino a scompaginarle, le varie sfere dell’apprendimento, da quella cognitiva, a quella socio-affettiva,  emotiva, e persino psico-motoria. Altra cosa è però affermare che non possano coesistere altre forme di comunicazione del sapere che non siano necessariamente quelle in presenza.

Quando si sostiene che la didattica a distanza non è metodologicamente un’opzione formativa percorribile, proprio perché carente di quei pre requisiti appena evidenziati, si fa un’operazione che confonde il mezzo con il fine. Da un lato sottacendo per esempio le innumerevoli opportunità che la stessa dà ai docenti di seguire i ragazzi a distanza, di monitorare il loro operato, di consentir loro di ripassare e rivedere i contenuti didattici da remoto in orari e luoghi non necessariamente legati ai ritmi e agli ambienti scolastici, e quindi più confacenti per coloro che per esempio devono conciliare impegni scolastici e lavorativi (magari le fasce socialmente più deprivate della popolazione?). Dall’altro disconoscendo che l’arte maieutica di far nascere la verità nell’interlocutore, e non solo di indottrinarlo di calcoli e nozioni, di accompagnarlo nell’acquisizione dei saperi, di renderlo autonomo nell’approccio alla conoscenza, di renderlo protagonista del proprio processo di apprendimento, può benissimo essere mediata da una presenza magari non fisica, ma di comunanza a distanza. Se ovviamente riteniamo che la figura del docente debba necessariamente curvarsi più su una dimensione tutoriale, che trasmissiva del sapere, onde valorizzare contesti anche innovativi di apprendimento, creare spazi creativi di discussione, assegnare compiti che valorizzino approcci mentali autonomi alla soluzione dei problemi. Non è da confondere, quindi, il mezzo (lezione in presenza o a distanza) con il fine (educare alla conoscenza, alla scoperta, alla creatività).

La didattica a distanza amplifica le distanze sociali, economiche e culturali. C’è sicuramente del vero in questa affermazione. Specie in un paese, quale il nostro, che sconta un bassissimo tasso di mobilità sociale ed un atavico divario socio-economico di molte zone del Sud Italia rispetto a quelle del Nord. Ma io mi domando e dico e ….. nel pensier mi fingo! La didattica in presenza, così come concepita e realizzata negli ultimi anni, è riuscita ad attutire questo fenomeno di distanziamento sociale? Mai come in questo caso il termine ha connotazioni poliedriche. Quanti ragazzi, specie negli istituti professionali, dove troviamo le fasce più deboli della popolazione scolastica, abbiamo consegnato alla strada nonostantela tanto declamata didattica in presenza? Tanti, troppi, mi verrebbe da dire. Quanti i ragazzi, solitamente i più insofferenti, dei cui comportamenti ci siamo quotidianamente lamentati nei contesti d’aula, oggi rispondono di più e meglio alle sollecitazioni di un approccio metodologico che da più spazio al loro diverso stile cognitivo, alla loro creatività, al loro modo di essere diversamente intelligenti? Tanti. Per fortuna. O almeno questa è la mia personale esperienza su un campione rappresentativo di circa mille studenti di varia estrazione sociale.

Ed allora. Non sarà che magari chi era pronto da tempo, perché da tempo aveva curvato il proprio curricolo d’istituto su più opzioni metodologiche in presenza e on line, oggi riesce a reggere l’onda d’urto di comunità variegate e complesse alle quali, pur con grandi criticità, riesce a garantire il servizio costituzionalmente previsto dell’istruzione, e chi non l’ha fatto, piuttosto che cogliere le enormi opportunità formative che la crisi sta generando, arranca tra visioni nostalgiche e vetuste richieste di ritorno al passato? E poi, pur volendo guardare indietro a questo passato, siamo poi così sicuri che il modello di docente-tutor che oggi si richiede nella scuola del secondo millennio sia poi così distante, per esempio, dal modello del maestro Socratico che faceva della comunicazione e del dialogo interpersonale il cuore della propria azione educativa? Siamo così sicuri che quel percorso di accrescimento cognitivo, alla cui base ci deve essere un’ineludibile relazione empatica tra docente ed allievo, non si possa realizzare anche in una rapporto a distanza? Cioè che la tecnologia sia fattore ostativo a questa dimensione relazionale, empatica, prima che cognitiva? O non serva per ridisegnare i confini entro i quali la stessa possa estrinsecarsi avvalorando, e non ostruendo, un fine che rimane lo stesso, sia pur con un metodo mediato dai nuovi media? Perché non pensare che i nuovi media possano facilitare una co-costruzione di saperi che vedano il docente-tutor ed il discente interagire tra di loro, con il primo regolatore del processo di apprendimento dell’allievo, e quest’ultimo non mero recettore dei saperi elargiti dal docente, ma co-protagonista del proprio processo di apprendimento?

Certo, sembra quasi un’eresia accostare l’agorà socratica allo spazio virtuale del web. Ma forse non lo è se solo riflettiamo sul fatto che, al netto dei differenti contesti sociali ed operativi di epoche così diverse, c’è un unico denominatore che le accomuna e, cioè, la creazione di una relazione sociale mediata dalla comunicazione, sia essa in presenza o via web. Forse è il caso di vedere lo spazio in rete come una grande, immensa,arena simbolica in cui la conoscenza non si propone tanto come un graduale processo di acquisizione attraverso un percorso lineare e definito quanto soprattutto come immersione, condivisione, scambio, interazione e i significati vengono prodotti, messi in circolazione e negoziati dai soggetti(1).

Vorrei chiudere con una breve riflessione sugli esami di Stato in presenza e, nel contempo, porre una domanda, in primis a me stesso, e poi a tutti gli operatori della scuola, cioè a coloro che dovranno stare fisicamente a scuola ben prima della fatidica data del 17 giungo, non foss’altro per organizzare nei dettagli tale attività. Cioè a coloro che, per intenderci, non possono permettersi di evocare solo scenari nostalgici di una scuola che oggi di fatto non esiste, ma devono coniugare l’etica dei principi con quella della responsabilità. Sempre mi domando e nel pensier mi fingo! Al netto di tutte le stringenti e gravi problematiche di salute pubblica afferenti le misure di prevenzione da adottare in tempi ristretti sia sulle persone (docenti, personale ATA, diplomandi), che sulle strutture, fattore di non secondaria importanza stante la realistica possibilità di recrudescenza del visus COVID-19 (vedasi a tal riguardo il documento tecnico INAIL con le parossistiche misure di contenimento e prevenzione nei luoghi di lavoro), quale potrebbe essere il valore aggiunto di un esame in presenza? In che maniera tale modalità potrebbe valorizzare di più e meglio un percorso scolastico che la commissione “tutta interna” conosce perfettamente, alla luce di un processo di apprendimento quinquennale già validato sino al primo quadrimestre e che, comunque, non potrà essere minimamente smentito in sede d’esame dalle risultanze degli ultimi mesi? Salvo non si voglia dar spazio ai soliti riti celebrativi, tanto cari al nostro popolo, che nel caso specifico cozzano però con una visione che richiederebbe, comunque, decisioni e comportamenti improntati al principio della massima prudenza e cautela. Su chi ricadrebbe la responsabilità di un eventuale nuovo focolaio determinato dalla promiscuità in ambienti scolastici di studenti, docenti e personale ATA per più di tre settimane? Per lo più in ambienti spesso non a norma?

#hashtag. Cui prodest?

(1) “Parallelismo tra la didattica socratica e l’e-learning” di Barbara Todini