Scuola, serve un piano per riaprire

da La Stampa
Andrea Gavosto*

La scuola sta infiammando il dibattito. Da un lato, crescono la pressione e le proteste delle famiglie sui modi e i tempi della riapertura, che sembra l’urgenza più importante. Dall’altro, la maggioranza ha dedicato giorni e notti, rischiando di sfaldarsi, al concorso per l’assunzione dei precari: una questione cronica e seria, che con l’emergenza virus ha però poco a che fare. È invece tempo – lo suggeriscono anche alcune anticipazioni – che il governo e le sue task force diano un’indicazione chiara sulla direzione da prendere per arrivare preparati alla ripresa scolastica di settembre.
La richiesta di genitori e mondo della scuola di ripartire con tutti gli allievi in classe – ovviamente in sicurezza e possibilmente senza didattica a distanza – nasce da un comprensibile desiderio di ritorno alla normalità. Non li aiuta, però, chi si inventa un bersaglio polemico inesistente. La scuola è chiusa per il virus, non perché qualcuno la voglia sostituire con la DaD. Quest’ultima non è la soluzione, ma è stata l’unica alternativa. Speriamo non debba tornare a esserlo, ma abbiamo capito che la formazione digitale è una risorsa in più per i docenti.
Sul concorso straordinario per mettere in ruolo 32.000 precari – previsto ben prima dell’emergenza – nella maggioranza ha infine ragionevolmente prevalso la linea della ministra Azzolina di mantenere una verifica delle competenze, per evitare una nuova sanatoria. La prova, però, cambierà e slitterà in autunno, dandoci la definitiva certezza che nemmeno uno dei vincitori sarà in cattedra a settembre. A inizio anno ci sarà in ogni caso un record di supplenti, oltre 200.000. Per aiutare la ripartenza, avrebbe avuto senso lasciare tutti i docenti al posto di quest’anno, dando quella continuità didattica necessaria agli allievi per recuperare quanto perso in questi mesi.
Che cosa, dunque, ci serve oggi per arrivare preparati a settembre?
Al momento, ignoriamo quale sarà l’evoluzione dell’epidemia e se nei prossimi tre mesi ci saranno nuovi lockdown. Sappiamo, invece, che le scuole potrebbero essere focolai virali. Vero, i più piccoli si ammalano meno degli adulti; non c’è al momento evidenza scientifica, però, che li escluda come veicoli di contagio, magari asintomatici, per insegnanti, nonni e genitori. E a scuola si hanno molti contatti e per un tempo prolungato, due fattori che moltiplicano il rischio. Difficile, dunque, dire oggi quali misure di distanziamento (un metro, due metri?) e di precauzione serviranno a settembre e se sarà possibile avere tutti in classe in sicurezza. Il ministro Speranza si è detto ottimista. Altrimenti, si dovranno fare scelte. Giusto dare priorità ai più piccoli (infanzia, primaria e media, come vorrebbe il Ministero) e agli allievi con fragilità, a partire dai disabili. Giusto, ma difficile.
Sappiamo, infatti, che serviranno nuovi spazi dentro le scuole e all’esterno per fare stare in sicurezza il maggior numero di persone, una giornata scolastica e una didattica più flessibili, orari ridefiniti e scaglionati. Un punto finora trascurato è che la soluzione non potrà essere uguale per tutti: alla luce delle linee guida del governo, ogni scuola dovrà trovare il mix di ingredienti più adatto al proprio caso. A decidere sarà, dunque, il dirigente scolastico, aiutato da figure con specifiche competenze tecniche e con il supporto degli enti locali proprietari degli edifici. Le regole di governo del processo, che include anche la responsabilità penale e civile dei dirigenti, vanno definite adesso. Altrimenti, il rischio – già lo segnala la difficoltà di formare le commissioni di maturità – è che gli attori della scuola decidano di non decidere, rendendo la riapertura un’impresa titanica. —
*Direttore Fondazione Agnelli