Scuola, l’anno più difficile

da la Repubblica

di LUCA BORZANI

Siamo arrivati alla fine dell’anno più difficile nella storia della scuola. Non solo quella italiana. L’ Unesco ci dice che l’attività scolastica è stata sospesa in 190 paesi coinvolgendo oltre il 90 per cento della popolazione studentesca a livello mondiale. Per oltre 1,5 miliardi di studenti l’istruzione è diventata a distanza attraverso l’utilizzo di tecnologie informatiche. Con buona probabilità il più epocale e gigantesco esperimento didattico da sempre. Di cui non sarà facile, almeno nell’immediato, valutare il mutamento prodotto nei processi di apprendimento e nel sistema delle relazioni dentro e fuori la scuola. A partire da un coinvolgimento del tutto inedito delle famiglie e dall’amplificazione, per generazioni di nativi digitali, dello svuotarsi della socialità fisica e di un rapporto non virtuale con i docenti e i compagni. Ci vorrà tempo per capire cosa è davvero accaduto. Nel bene e nel male. Ed è un tempo che però non c’è. Perché garantire a settembre l’apertura delle scuole è qualcosa che rimanda non solo a una straordinaria complessità organizzativa ma moltiplica a livello esponenziale le tradizionali emergenze della scuola italiana: dal precariato, all’inadeguatezza degli edifici, alle classi-pollaio. Una scuola tra le più maltrattate in Europa, su cui per decenni si è solo disinvestito, afflitta dalla burocrazia e da ritardi, anche culturali, sollecitata a competizioni interne tanto più forti quanto si è oscurata la sua funzione nell’ambito della società. Diciamocelo. Non era scontato che questa scuola fosse in grado di misurarsi con un evento così traumatico, riuscisse in tempi brevi ad auto-aggiornarsi, a superare il gap tecnologico che affliggeva l’istituzione come molti dei docenti, ad essere protagonista di una resilienza così importante per la tenuta del paese. Uno sforzo collettivo di cui si dovrà continuare ad avere memoria e di cui forse c’è innanzitutto da ringraziare prima di scivolare in polemiche vecchie e nuove. Perché ciò che è successo è che la scuola pubblica ha ritrovato, insieme alla sanità, il suo ruolo di priorità nazionale, di istituzione centrale per garantire crescita civile e cittadinanza consapevole. Qualcosa di profondamente diverso dall’essere solo un prolungamento del welfare famigliare. Certo non tutto è andato bene. Perché, anche nella scuola, la pandemia non ha ridotto ma reso più drammatiche le diseguaglianze e i disagi. I più poveri sono caduti più in basso. E sono tanti. Su quasi dieci milioni di italiani tra i 0 e i 18 anni circa 1.700mila sono segnati dalla fragilità economica. Buona parte sono rimasti privi di connessione, isolati dentro famiglie difficili e in abitazioni degradate. Per non parlare dei disabili, quasi 7mila nella sola Liguria. Anche per questo la didattica a distanza se è stata decisiva nei giorni del lockdown non può diventare un’alternativa. Ed è importante evitare facili entusiasmi e semplificazioni. Non trasformare uno strumento emergenziale in strutturale. A supporto di una scuola ridotta alla sola trasmissione di competenze, indifferente all’ educazione e alla formazione. Non ci serve la tecno-scuola come non ci serve la tecno-politica. E proprio per questo è decisivo che le istituzioni scolastiche adesso non si trovino sole. Magari con una medaglia di cartone come riconoscimento. Perchè riaprire a settembre implica una nuova rivoluzione. Vale per tutt’Italia, vale per la Liguria, ad oggi con 171mila studenti suddivisi in 8140 classi. Garantirne l’accesso a scuola in base alle norme del distanziamento implica recuperare spazi, arruolare docenti, definire complicati protocolli organizzativi. Qualcosa che impone una regia condivisa e unitaria tra stato, regione, autonomia scolastica. Non sembra, ad oggi, che ci stia muovendo in questa direzione. Prevalgono il giorno per giorno e un’ansiogena routine. All’ adeguamento dei locali seguono altri temi non meno impegnativi: dagli orari, alla mensa, alle palestre. Alla nuova e inedita responsabilità sanitaria che segnerà gli insegnanti, gli alunni come le famiglie. La negletta educazione civica si troverà ad essere materia fondamentale. Per non dire dell’educazione alla salute. Davvero una grande sfida e la possibilità per la politica e le istituzioni di dimostrare di aver capito che il dopo non potrà essere solo tornare a prima. Il rischio reale è che prevalga una sorta di “in qualche modo si farà”. L’assenza di strategie e di programmazione. E soprattutto il non vedere la possibilità di disegnare in modo diverso il rapporto tra scuola e territorio. Che è poi disegnare il nostro futuro.