Solo in classe c’è amore per la parola

da La Stampa

Nadia Fusini

Premetto che non sono una misoneista, non odio il nuovo, non odio il web, adoro il mio Mac, credo al contrario che siamo fortunati a vivere in quest’epoca, e sono entusiasta, anche se poco competente.
E comunque mi sforzo di imparare a servirmi delle immense possibilità che la rete garantisce allo studio. Spesso essenziali per l’arricchimento della stessa didattica.
Ho contribuito alla nascita di Memoria di Shakespeare, che è una delle più importanti riviste di filologia shakesperiana al mondo, fatta e pensata per il web, accessibile open access, fin da tempi proto-web.
Però ho sofferto molto in questi mesi in cui, viste le circostanze, ho provato a fare lezioni da remoto. Intanto, ho sofferto intellettualmente, perché la mia esperienza di insegnamento mi insegna, per l’appunto, che non si può insegnare così. Perché in presenza ogni classe è diversa da un’altra. E difatti ogni volta che entro in classe, benché vi entri coi miei appunti, preparata, poi mi metto a parlare, e la relazione con chi mi sta di fronte si impone, e fa sì che la lezione prenda un’altra piega. Perché? Perché vedo la faccia di quella studentessa in terza fila, e capisco che non mi segue e mi devo spiegare meglio. Oppure, quello studente in fondo, alza la mano e con un certo timore fa una domanda, che naturalmente accolgo e mi porta altrove. Nella mia lunga esperienza non credo di aver mai fatto la lezione che avevo preparato. Anche perché mi sarei annoiata. Sì, confesso che mi annoio in fretta, perché amo la parola viva, che nasce dall’incontro con l’altro.
Può sembrare retorico, ma è vero: io in classe vado a imparare, è un happening, la lezione. La faccio io che parlo, quanto chi ascolta. Si tenga conto che insegno letteratura, letteratura inglese: che sia Shakespeare, che sia Keats, che sia Virginia Woolf, io leggo con gli studenti, commento. Ed è davvero qualcosa che accade lì, in classe. Solo così insieme si eccita e si coltiva la passione e il gusto della lingua; solo così si fa davvero filologia, e cioè si pratica l’amore della parola.
Ora, certo, d’accordo, per via del “distanziamento sociale”, ho fatto lezione “da remoto”. Ho fatto “erogazione didattica”(sic!). Mi fermo un attimo sulle parole: “Distanziamento sociale”. Che brutto termine, non vi pare? Com’è orribile la parola d’ordine politica, com’è burocratica. “Erogazione didattica”, ma che significa?
Non voglio fare la difficile, e tuttavia, visto che noi professori “professiamo” il mestiere intellettuale, credo sia nostro compito considerare criticamente le situazioni in cui ci troviamo ad agire e stare attenti e pensare. E allora sì, denuncio la mia riserva generale su questa corsa alla telematizzazione dell’università e di tante altre attività culturali e performative. Quelle che potevo evitare, l’ho fatto.
Certo, c’è l’emergenza. Ma, attenzione: le situazioni di emergenza, anche quando serissime e fondate come questa che stiamo affrontando, sono pericolose, perché preludono ad accelerazioni che mi chiedo se in futuro sapremo controllare.
A me pare nello specifico assai pericoloso: d’accordo, è solo un sospetto, ma non è che dietro alla teledidattica ci vogliono preparare all’assimilazione delle lezioni e dei seminari, e delle discussioni a distanza con quelle in presenza? Non è che sta passando l’idea che tutto si possa fare a distanza, con il conseguente e inevitabile annientamento di quello spazio pubblico per eccellenza, che è l’università? E in generale i luoghi della vita attiva del cittadino? Questo è il pericolo.
E vi prego di credermi, non voglio fare la Cassandra, ma la verità è sotto gli occhi di tutti. Da anni, vuoi per strategia, vuoi per ignoranza e colpevole disinteresse, le istituzioni e le attività culturali nel nostro Paese sono state messe sotto attacco, quasi che la cultura e l’istruzione siano un bene di lusso.
Non amo le Cassandre di turno che ci vogliono spaventare, né tantomeno i complottisti. Credo al contrario che dobbiamo darci coraggio in un momento così difficile, e rimanere all’erta: in tanti ce l’hanno ricordato – la “salute” del cittadino non è solo la sua immunitas rispetto al contagio. Sì certo, per carità, anche; ma io non sono un medico, a me interessa soprattutto quella salute che si difende con l’esercizio intellettuale, con la condivisione di beni primari come il pensiero e le idee. Insieme. Corpo e mente. Perché, come Shakespeare insegna, “society is the happiness of life”; e cioè, “stare insieme è la felicità”. La convivenza, la vita pubblica, l’università, la scuola vanno vissute come luogo di incontro e di scambio fisico di saperi e conoscenze ed esperienze. È questa l’aria di cui abbiamo bisogno. Pena l’asfissia di cui anche si muore.