La solitudine delle nostre aule vuote

da la Repubblica

Alberto Asor Risa

La solitudine è stata il tratto dominante dell’esistenza durante l’epidemia del coronavirus; e non è detto che non lo resti anche ora che i confini tra le regioni sono stati riaperti. Detto in parole povere: stare insieme fa male, molto meglio stare da soli; e per giunta, oltre che da soli, separati da tutto il resto, e il più possibile lontani. Qualche esempio, talmente ovvio che potrei risparmiarmelo. Allo scoppio della pandemia: non c’è alcun rimedio, la scienza, l’infallibile scienza, non può dare altri consigli che un’invalicabile prudenza. Per carità, state lontani, meno vi vedete e meno vi accostate, e meglio è.

Reclusi in casa: non scendere in strada se non per motivi di pura sopravvivenza; in strada starsene accostati alla propria parte quando il vicino passa dall’altra; ritirarsi il prima possibile nel proprio rifugio casalingo; liberarsi il più sistematicamente possibile da ogni eventuale contatto esterno.

E la “mascherina”? La maschera è segno inequivocabile di distanziamento e di camuffamento. Deforma il viso e la voce: copre i tratti più individuali e più caratterizzanti che contraddistinguono ognuno di noi. È come se all’improvviso avessimo fatto un passo indietro nelle forme della conoscenza e della comunicazione.

Se si proietta tutto questo sul mondo sociale e del lavoro, gli effetti per ora sono giganteschi. Parlo di ciò che conosco meglio: le case editrici; le biblioteche; la scuola e l’università. Pensate a quello che è una casa editrice: un cervello collettivo (certo, quando c’è n’è uno), pulsante di vita, scambi, discorsi, dissensi, scelte… e, se si vuole, di ammiccamenti, segni d’intesa, allusioni, leggibili e interpretabili, quando nessun altro al di fuori ne capirebbe niente, sulla base delle pluridecennali consuetudini comuni. E la scuola? E l’università?

La scuola e l’università vivono del senso collettivo dell’esistenza, ovvero di scambi continui che vanno (e tornano) in tutte le direzioni: i “contenuti” sono una componente del sistema, una; ma è lo scambio diretto tra “persona” e “persona”, tra le “persone” (di qualunque livello siano) e i “contenuti” a creare il sistema, a renderlo produttivo e soprattutto riproducibile. Anche qui la forma, il modo di porgere, il modo di ricevere, rendono effettivamente operante e trasmissibile il sapere. La solitudine, imposta come criterio di vita e di salvezza, opera in senso assolutamente contrario a tutto questo. Naturalmente non ignoro lo sforzo generoso e poderoso che è stato compiuto in tutti i campi per affrontare e piegare comunque ad una logica comune i rischi e le “impossibilità” della solitudine. Battere la strada informatica ha significato questo: mantenere in piedi il “sistema” nel momento in cui correva un rischio fatale. Me ne intendo troppo poco per addentrarmi di più in questo campo.

Ma la mia impressione è che se la comunicazione informatica ha impedito il disastro, per altri versi lo ha sistematizzato e perciò reso ancor più permanente. È come dire: visto che esiste questa risorsa, si può accettare di essere soli, si può accettare di restarlo.

In fondo, la solitudine in questo modo non comporterà una vera e propria catastrofe ma solo un sistematico aggiustamento, una sorta di tranquilla assuefazione.

Il discorso si allarga e si complica ulteriormente se si tiene conto del fatto che il sistema culturale e formativo è profondamente interconnesso con tutto il resto (storie individuali, società, politica, in taluni casi dimensione della trascendenza e religiosa, ecc. ecc.). Non è perciò difficile capire che la solitudine, come l’abbiamo intesa finora, può mettere in crisi l’intero sistema, quello che va ben al di là della cultura e della formazione. Se non fosse così, forse non varrebbe neanche la pena di parlarne.

Naturalmente, mi rendo perfettamente conto che questo discorso ha anche un altro versante, che meriterebbe di essere approfondito. E cioè: la solitudine è, può essere, una scelta volontaria e profonda, un momento essenziale di riflessione e di approfondimento. Chi non lo capirebbe? Su questa scelta si è retto gran parte del sistema creativo occidentale. Ma, a meno che non si accetti consapevolmente (è accaduto diverse volte nella storia) un sistema di vita monastico – altro errore commesso, si direbbe, per sfuggire alla vera, autentica dimensione drammatica dell’esistenza – la solitudine, anche questa solitudine, frutto di una libera scelta, torna a misurarsi a un certo punto con un sistema di relazioni potenzialmente universali. Sprofondando in un gigantesco sistema di relazioni, la solitudine, anche questa solitudine realizza se stessa. Per giunta: combattere la solitudine indotta, costrittiva, significa anche combattere per la solitudine voluta, prescelta e profondamente coltivata Se la perdita di libertà che deriva dalla solitudine costrittiva vale per tutti, viene moltiplicata per mille per tutti quelli che hanno superato una certa linea di confine nel mondo (qualcuno dice dopo i settantacinque, io dico con la sicurezza dell’esperienza dopo gli ottanta). Non mi riferisco solo alla strage nelle case di riposo, ma anche alla visione che al vegliardo, per quanto talvolta corretta dalla sollecitudine dei famigliari, hanno provocato su di sé e sul proprio destino la solitudine e la reclusione.

La solitudine e la reclusione provocano la percezione concreta e tangibile, “toccabile”, della scomparsa. Certo, in ogni caso, ci si è vicini: ma vederla operante su di sé e accanto a sé accelera i tempi.

La domanda che a questo punto prorompe impetuosamente da tutte le parti è: si poteva fare diversamente? Ma la domanda è stupida. Che cosa vuol dire? Se una scelta è necessaria, non se ne possono individuare e segnalare tutti gli aspetti negativi? E ora che, a quanto si dice, ne stiamo uscendo, mette ancora conto parlarne? Ci sono ricadute che vale la pena di tener presenti anche quando si pensa (s’immagina) di esserne fuori. La solitudine, intesa nel senso che ho cercato di descrivere, è l’assenza di contatto umano, l’incapacità o l’impossibilità di collocare il proprio io e la propria ricerca in una dimensione di rapporti e di scambi.

Siamo sicuri di andare trionfalmente verso la tranquilla riconquista di questa dimensione, che, a pensarci bene, non c’era neanche prima che scoppiasse la pandemia?