L’Istruzione ai margini degli Stati generali sull’Economia

L’Istruzione ai margini degli Stati generali sull’Economia

di Gian Carlo Sacchi

Una grande consultazione per far ripartire l’economia italiana dopo la pandemia non poteva che annoverare tra i suoi obiettivi la ricerca e la formazione, tanto poi come in tante altre occasioni vengono tralasciate per altre priorità più legate al mondo del lavoro e della produzione. Tant’è che gli stati generali convocati dal presidente del consiglio sembravano appannaggio delle sole categorie economiche senza che aldilà delle generiche buone intenzioni si ravvisassero interventi specifici nel mondo dell’istruzione.

Ad un certo punto della kermesse sono sbucate dieci schede (Dieci schede per la Scuola) che riguardano questo settore in cui venivano elaborate proposte anche molto dettagliate con altrettante previsioni finanziarie, che però hanno fatto una fugace apparizione e non risultano nei documenti finali, facendo temere che si tratti di un’iniziativa estemporanea forse costruita dall’esterno, visto che gli organismi politici e ministeriali in questo momento guardano altrove, ma che comunque varrebbe la pena di recuperare e far giungere a chi di dovere, governo e parlamento, magari per i tempi medi, in quanto potrebbero operare una svolta nel sistema che fa bene anche alla cura istituzionale dopo il corona virus.

Le schede affrontano diversi temi, tutti di grande attualità per l’innovazione scolastica, che seppur ispirate da diverse scuole di pensiero possono comunque costituire un passo avanti per auspicabili processi di riforma sui quali l’attuale classe politica nel suo complesso sembra non aver le idee chiare e gli estensori delle schede potrebbero fornire un importante contributo. Qualunque sia la verità sulla redazione di quei documenti vale la pena di utilizzarli per riaprire il dibattito sulle cose che contano e che bisogna affrontare anche se non sempre ci vengono prospettare soluzioni coraggiose e di effettivo cambiamento.

Delle dieci proposizioni vorremmo soffermarci su due nella convinzione che possano ridare efficacia all’intero sistema con soluzioni che già sono presenti nell’ordinamento ma non realizzate per effetto della debolezza politica da sempre presente sulla scuola e del centralismo burocratico, e altre che necessitano di un percorso legislativo che sarebbe il caso di avviare per non ridurre l’attività del Parlamento alla sola problematica dei precari che oltre alla garanzia del posto di lavoro avrebbero bisogno di una vigorosa iniezione di professionalità.

Il primo tema è tornare a parlare di autonomia, evocato da più parti ma vincolato da una gestione centralistica dalla quale la scheda non prende completamente le distanze. Autonomia vuol dire spazi e tempi per stare sul territorio, risorse economiche e di personale impiegate in base al progetto formativo e rendicontazione soprattutto sul piano sociale dei risultati. Tutte indicazioni già presenti nella normativa che le scuole non utilizzeranno mai se alla fine si pretende da loro comportamenti standard perfino nella strumentazione e prassi amministrativa.

Il curricolo di istituto (80% nazionale e 20% locale)prevede già la possibilità di inserire una componente regionale, che rimarrà lettera morta se deve sottostare a previsioni di organici ministeriali rigide. Sarebbe bello applicare il DPR 255/1999 sull’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e sviluppo, ma ci sarebbe anche il D.legvo 112/1998 per quanto riguarda i rapporti con regioni ed enti locali, la legge 42/1999 e la 107/2015 per quanto riguarda i finanziamenti “multilivello” e la partecipazione alle entrate fiscali del territorio stesso.  

Tutte queste disposizioni hanno un dato in comune, la flessibilità che è appunto il comportamento plastico dell’autonomia e prevede la possibilità di valorizzare diversi ambienti di apprendimento, che potrebbe risolvere anche il problema del funzionamento in relazione all’emergenza sanitaria, mentre siamo ancora nell’ottica dell’adempimento uniforme che conduce lo sguardo delle scuole in verticale, verso il ministero e non come dovrebbe essere in orizzontale per far fronte alle necessità delle realtà in cui esse vivono e non solo lavorano.

Da qui nasce la motivazione a valorizzare le figure professionali, a cominciare dal riconoscimento economico e di carriera dei docenti perlomeno equiparato ai colleghi europei; di questo la politica parla quando è alla ricerca del consenso, ma senza nessun risultato concreto. Si torna a trattare della figura del dirigente, la cui funzione è su un binario morto, ma se l’autonomia è conferire all’istituzione scolastica una pluralità di competenze allora occorre una leadership diffusa, cioè una serie di figure intermedie con adeguata specializzazione. Perfino per l’ispettore scolastico si dovrebbe prevedere autonomia, come avviene in altri Paesi, così potrebbe autorevolmente intervenire in strutture territoriali che si occupano di valutazione del sistema, ma anche di ricerca e di formazione del personale, mentre si ha motivo di credere, anche in vista di un nuovo reclutamento, che continui a trattarsi di figura burocratica alle dipendenza dell’amministrazione scolastica, come del resto avviene per gli stessi dirigenti e per il loro ruolo nell’ambito degli organi collegiali, che andrebbero riformati proprio per valorizzarne l’autonomia.

La scheda non ha però il coraggio di andare fino in fondo, prevedendo il ripristino della funzionalità giuridica e amministrativa degli uffici scolastici regionali e territoriali anziché la loro abolizione, come si era tentato ai tempi delle riforme Bassanini e attorno alla modifica del titolo quinto della Costituzione. Si ricorderà il tentativo di trasformare le prefetture in uffici territoriali del governo unificando le strutture locali dei vari ministeri (D.leg.vo 300/1999): nulla di fatto, anzi quelle regionali della pubblica istruzione hanno più poteri in termini di governance del ministero centrale, ma per ora la logica non cambia, speriamo nel tentativo da parte delle regioni di vedersi attribuite più competenze in tale settore.

Alle scuole autonome manca una rappresentanza sul piano istituzionale e territoriale (Consiglio Nazionale dell’autonomia ?); le reti sono di scopo con compiti di carattere esecutivo e nei territori regionali difficili sono i rapporti tra innumerevoli realtà scolastiche sparse che peraltro rispondono ad un ufficio statale e le emanazioni degli enti locali e della medesima regione.   

L’altra scheda degna di interesse è quella che si occupa delle scuole superiori come campus, che ipotizza una riforma della struttura che potremmo definire leggera e per questo forse più facile da realizzare e capace di conferire una maggiore flessibilità al sistema ed un ordinamento già in grado di recepire le modifiche.

La parola campus venne introdotta dalla riforma Moratti del 2003 e serviva per raccordare a livello territoriale diversi istituti che per effetto del dimensionamento dovuto al riconoscimento dell’autonomia erano stati accorpati, creando un’osmosi tra questi per migliorare l’offerta formativa, il riorientamento degli allievi, nonché rafforzare la formazione generale. Questa indicazione potrebbe essere seguita per la generalizzazione degli istituti comprensivi del primo ciclo e la costituzione dei poli per l’infanzia recentemente introdotti dal D.Legvo 65/2017.

Il secondo cambiamento riguarda la durata quadriennale dei vari gradi di scuola, aggiungendo un anno della primaria alla secondaria di primo grado e finendo le superiori a 18 anni, con la maggiore età,  destinando il quinto ad attività formative non formali ma altrettanto utili, come un erasmus per la scuola, nonché un periodo di servizio civile/ambientale, alternanza scuola-lavoro, anche al fine di accumulare crediti per l’istruzione terziaria, accademica e non ed il mondo del lavoro.

La proposta continua con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione alla conclusione del secondo ciclo, e qui bisogna intendersi se devono essere obbligati i giovani, come è accaduto per il biennio, con i risultati che sappiamo sul piano dell’abbandono e dell’insuccesso, di fronte ad un curricolo rigido e uguale per tutti, con risultati attesi nell’arco di una molteplicità di discipline per l’accesso alle classi successive, o se sia l’obbligo del sistema di far raggiungere a tutti almeno il diploma superiore, con la necessaria flessibilità, superando le classi omogenee per età, per un sistema di debiti/crediti, che costruisca il curriculum dello studente con le competenze effettivamente raggiunte.

Gli esami al termine dei due cicli dovranno essere un bilancio del lavoro svolto dagli allievi e dalla scuola, superando gli obsoleti dibattiti sul buonismo con elevati risultati regalati o evocando selezioni senza che vi sia da parte dello studente motivazione e partecipazione alla definizione del piano di studi, con conseguente impegno nell’effettivo apprendimento.

L’epidemia ha portato alle prove finali che abbiamo visto quest’anno, ma potrebbero essere mantenute anche in tempi di pace; da un semplice, ma non tanto, colloquio si può evincere, come hanno detto diversi presidenti di commissione, il dato di personalità e di preparazione. Ancora una volta il nostro ordinamento sarebbe già pronto per andare in quella direzione, avendo anche i necessari riconoscimenti delle competenze a livello internazionale.

Si è voluto enfatizzare il contenuto delle schede ritenute più importanti per un rilancio del sistema scolastico nel suo complesso; sono state solo una provocazione ? Varrebbe la pena comunque riprenderle ed offrirle ad una politica che al di la delle enunciazioni, ormai ovvie, non riesce a strutturare proposte concrete ed efficaci, e che oltre alle questioni sanitarie ha bisogno di aiuto sul piano dell’innovazione didattica e organizzativa.

Chi ha compilato le schede potrebbe farsi carico di riaprire il discorso, richiamando esperti, operatori e la stampa specializzata, coinvolgendo anche i politici e portando le riflessioni alle conclusioni degli stati generali, anche questo vuole essere un piccolo contributo.