Autonomia, adesso o mai più

Autonomia, adesso o mai più

di Gian Carlo Sacchi

Le difficoltà in cui si dibatte la nostra scuola in vista dell’apertura del nuovo anno hanno mobilitato forse per la prima volta nella sua storia contemporaneamente istituzioni e realtà sociali a cercare modalità di ripresa dopo una lunga chiusura che ha creato non pochi disagi alla didattica ed alle relazioni tra le persone e le comunità, cercando di schivare un’eventuale recrudescenza della pandemia che ha imposto comportamenti ai quali mai prima si sarebbe pensato e che adesso diventano centrali nell’organizzazione.

Il rapporto tra scuola e società è in discussione da tempo, ma finora si è trattato di timide aperture alla partecipazione e se pur una pluralità di soggetti si trovava insieme in organismi chiamati collegiali per evidenziarne l’aspetto democratico, questi non avevano nessun potere reale di governo rimasto saldamente nelle mani dello Stato che lo esercita attraverso il suo apparato amministrativo.

Bisognava andare oltre l’aspetto partecipativo e nel periodo di riforma della pubblica amministrazione attuata, alla fine degli anni settanta del secolo scorso, si fece largo il concetto di autonomia appannaggio perlopiù di regioni ed enti locali, che venne riconosciuta anche alle scuole, le quali avrebbero dovuto abbandonare la dipendenza dall’amministrazione per potersi relazionare direttamente con le istituzioni del territorio. Ma la cosa si concluse a metà, in quanto si volle evitare la frammentazione di un servizio destinato a tutti i cittadini, da organizzare a livello nazionale.

La revisione del titolo quinto della Costituzione introdusse lo sdoppiamento delle competenze attribuendo allo Stato le norme generali e i principi fondamentali del sistema ed alle Regioni la governance dei servizi, facendo salva l’autonomia scolastica, la quale però non avendo un’organizzazione delle scuole autonome in grado di rapportarsi con i due interlocutori principali, statale e regionale, fu trattata come il vaso di coccio, in grado di espletare soltanto competenze tecnico-didattiche e non si è mai valorizzato adeguatamente un’autonomia “pedagogica”, nonostante il riconoscimento costituzionale, privilegiando la  dimensione politico-amministrativa.  

Inizia così la contesa tra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni, approdata spesso alla Corte Costituzionale; a queste due riforme si è aggiunta la legge sul federalismo fiscale, per arrivare alle proposte relative al regionalismo differenziato, tutte fondate sull’accentuazione dell’autonomia. Nel settore dell’istruzione però il passaggio di attribuzioni agli enti territoriali ed alle scuole c’è stato solo in minima parte e questo fa sì che i vincoli normativi generali e le esigenze locali creino disagio ed inefficienza nel sistema.

L’emergenza sanitaria ha inferto una forte scossa all’organizzazione del servizio, facendo riemergere il tema dell’autonomia degli istituti scolastici e dei poteri di Comuni e Regioni nei confronti del centralismo statale. Si pensi ad esempio al di là dei necessari finanziamenti come l’assegnazione del personale debba passare attraverso l’ordinanza degli organici e modalità di reclutamento standard a livello nazionale, mentre sia importante da un lato diversificare gli interventi con un’assegnazione su base regionale e dall’altro che le scuole abbiano a disposizione un organico di istituto da utilizzare in modo flessibile, sia in relazione al curricolo, sia alle nuove disposizioni sulla sicurezza sanitaria.

Un altro esempio eclatante che incomincia a fare notizia è il totale fallimento dell’Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro con i relativi navigator, quando le Regioni disponevano già di banche dati sulla domanda e l’offerta, in una collaudata struttura di servizi per l’impiego.

Le scuole devono riaprire a settembre, il tempo stringe, molte sono le cose da fare e le proteste non tardano ad arrivare, soprattutto da parte di chi è abituato a sottolineare le inefficienze statali rimanendo comunque all’ombra delle indicazioni ministeriali, ma la cosa più interessante è che Stato, Enti Locali e scuole stanno facendo la loro parte nell’ottica della leale collaborazione e per la prima volta in questo settore si vede applicato il nuovo titolo quinto, valorizzando la partecipazione (patto educativo con la famiglia), la gestione del servizio e il governo del territorio, fino ad arrivare all’intervento dello Stato a sostenere la qualità del sistema. Riemerge anche il ruolo della sanità pubblica con maggiori competenze sulla salute e sicurezza di alunni ed operatori, non semplicemente con compiti diagnostici e certificativi. 

In apparenza è sembrato che l’inconcludenza politica scaricasse una serie di incombenze sugli anelli più deboli della catena, quelli terminali, ma dopo l’intesa Stato-Regioni si può credere che il cerchio delle responsabilità sia sostenuto da diversi enti, chiamando a collaborare le famiglie e la società civile. Questo dovrà rassicurare i dirigenti scolastici che finalmente faranno il mestiere che tanto hanno rivendicato, cioè il referente del progetto formativo nei rapporti con l’utenza e gli altri soggetti impegnati nelle politiche territoriali (patti educativi di comunità).

E’ raro che un ministro non faccia della retorica sull’autonomia, ma pur con tante incertezze e fragilità questa volta ha espresso la convinzione che “ipotizzare una soluzione uguale per tutti, centralizzata, sarebbe fantascienza….l’autonomia non è una scorciatoia, è l’unica strada possibile”. In questo appoggiata da tutte le forze politiche di maggioranza.

Le linee guida del Governo per l’apertura del nuovo anno scolastico mettono in evidenza le due scuole di pensiero ancora compresenti nell’amministrazione, da un lato quella che sull’onda degli scarsi investimenti pone dei vincoli sul piano organizzativo, e, dall’altro, quella che facendo leva sull’autonomia cerca di forzare le predette limitazioni per lasciare più spazio alle decisioni prese sul territorio. Se ad esempio sono necessarie più risorse per effettuare il distanziamento, con l’assunzione di più personale, perché si deve dar corso all’abolizione delle scuole sottodimensionate, da sempre subite dalle Regioni, alle quali spetterebbe la programmazione della rete, mantenendo un servizio soprattutto nelle zone più disagiate e generalizzando gli istituti comprensivi del primo ciclo anche nelle aree urbane, che permettono un uso promiscuo di spazi e di personale da parte dei vari gradi scolastici.

In tale documento, emanato forse troppo in fretta, seppure in una situazione di emergenza, vengono fornite indicazioni di sistema, che competerebbero al capitolo delle norme generali dello Stato, ma anche di carattere didattico, che andrebbero invece attribuite alle autonomie scolastiche e più legate a scelte territoriali di competenza degli enti preposti. Tavoli operativi regionali, per mettere in pratica le intese Stato-Regioni, e conferenze dei servizi degli EELL, strumenti di gestione dei problemi dei territori, con la partecipazione delle istituzioni scolastiche, che in questo modo si vedono riconosciute e legittimate come interlocutori di costruzione delle strategie a livello locale.

Senza voler entrare nelle disposizioni minute dettate soprattutto dalle necessità di far fronte all’emergenza sanitaria, si accennano alle questioni inerenti l’esercizio dell’autonomia, utili per l’intero sistema anche in tempi di pace. La prima indicazione del documento ministeriale riguarda la flessibilità in tutte le sue applicazioni: la “riconfigurazione del gruppo classe” era già contenuta nel DPR 275/1999, ma la possibilità di costituire “più gruppi di apprendimento” con alunni “provenienti dalla stessa classe o da classi diverse e da diversi anni di corso” e “diverso frazionamento dei tempi di insegnamento”, coinvolge non solo i turni differenziati di frequenza, ma anche il curricolo, la valutazione, la diversificazione degli stessi ambienti nei quali si apprende.

Una didattica integrata, in presenza e a distanza, non può essere ridotta al nozionismo via web, ma trattandosi di flipped classroom vuol dire cambiare la modalità di costruzione della conoscenza, dall’analisi della realtà, ad una pluralità di linguaggi, al coinvolgimento dell’esperienza degli studenti. Non si tratterà più di somministrare un sapere frammentato in tante materie, ma è possibile “l’aggregazione delle discipline in aree o ambiti disciplinari”, riprendendo l’impostazione data alla riforma della primaria con il relativo team docente, che farebbe bene anche alle procedure anticovid. Tale modalità andrà applicata nella secondaria di primo grado, che ha bisogno di aree disciplinari, pena la dispersione non solo cognitiva, ma più in generale il fallimento della scolarità.

La scuola aperta è un’altra indicazione di cui si parla da tanto tempo, che è stata rilanciata anche dalla legge 107/2015, non solo per allungare i tempi della didattica peraltro sempre più richiesti anche dalle famiglie, ma per vedere in essa un “presidio pedagogico del territorio”, un “civic center” a disposizione di un’utenza anche adulta, come previsto dal citato decreto sull’autonomia, ma della cittadinanza intera, dove si intendono promuovere le competenze non formali ed informali, in collaborazione con iniziative degli enti locali,  del mondo aziendale e dell’associazionismo, attraverso i suddetti patti educativi di comunità, nonché i laboratori territoriali per l’occupazione.

Qui bisogna avere il coraggio di investire nel personale rovesciando la procedura in atto a livello sindacal-burocratico, e cioè il piano dell’offerta formativa non può essere contenuto nella rigida struttura oraria dettata dagli accordi sindacali e imposta a livello nazionale, ma ,al contrario, è il progetto di istituto, che diventa di territorio, a dettare le esigenze di organico che si risolve con il potenziamento di quest’ultimo sia con docenti e ATA, sia con altre figure professionali assunte a contratto dal dirigente scolastico, con l’intervento di programmazione delle regioni, come ebbe a dire un bel po’ di tempo fa la Corte Costituzionale.

Il vero rischio paventato anche in questo caso dai detrattori dell’autonomia è quello di avere un sistema che manca di equità, e come sia possibile garantirla adottando soluzioni organizzative diverse. Non v’è chi non veda, e l’INVALSI in questi anni ne è stato buon testimone, che il centralismo non ha ottenuto risultati omogenei e che il nuovo titolo quinto della Costituzione aveva previsto l’elaborazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” per tutti i cittadini, tradotti negli “standard minimi di servizio”; è su questi che lo Stato si deve impegnare colmando i vuoti di regioni con scarsa capacità fiscale, con fondi perequativi previsti dall’art.119 della carta costituzionale. Ed è qui che si discute sulle ragioni del regionalismo differenziato.

Al ministero compete di mettere a disposizione degli strumenti, in modo che ogni scuola creerà il proprio vestito su misura: parola di ministro. Tenere la barra sull’autonomia è tra i mille altri problemi l’elemento più interessante di queste linee guida; è da qui che si deve partire per tentare di risolvere le altre questioni di carattere organizzativo, ma anche educativo e didattico, nonché di governo, dove ognuno agisce per le sue competenze e insieme per rilanciare la scuola nel Paese, facendo tuttavia molta attenzione che nel bailamme legislativo, e questa contraddizione è ben presente anche nei recenti provvedimenti, si tenti di riportare continuamente sotto la voce ordinamento non solo le norme generali, indicate dall’art. 117 della Costituzione, ma anche la gestione.

Il triangolo dell’autonomia si chiude con il ruolo che hanno avuto le Regioni  in questa partita, che per la prima volta a loro dire hanno contribuito alla costruzione del Piano Scuola 2020/2021. Una collaborazione  che supera i passati conflitti di competenze, salvaguardando ciò che la Costituzione attribuisce alle scuole. E’ su questa lunghezza d’onda che vediamo dunque applicato il nuovo titolo quinto e che vorremmo vedere il regionalismo differenziato. Recuperare i tagli di personale operati sugli organici degli anni precedenti e distribuirlo con il contributo delle Regioni stesse, come la suprema Corte aveva già indicato nel 2004, aiuta a sostenere l’emergenza e non solo. Intervenire sull’edilizia scolastica, sul sistema integrato per l’infanzia; sostenere le scuole autonome, mantenendone un numero concordato, tenendo conto delle criticità di ciascuna, nei rapporti con i diversi attori locali che possono contribuire all’arricchimento dell’offerta formativa.

Comunità territoriali tra sussidiarietà e corresponsabilità educativa per fornire una visione unitaria del progetto educativo legato però alle specifiche esigenze. In sintesi linee guida che applicano il predetto titolo quinto. In tale contesto famiglie e allievi dovranno continuare a mettere in pratica i comportamenti previsti per il contrasto all’epidemia in un’azione di responsabilità educativa collettiva, che diventeranno vere e proprie azioni formative con adeguate competenze per i più grandi e gioiose routine per i più piccoli.

Se gli edifici non sono sufficienti nel breve periodo vanno integrati con altri spazi anche esterni, mentre nel lungo periodo andranno riconsiderate le iscrizioni, per porre fine alle “classi pollaio”, e l’ampiezza delle autonomie, con una maggiore presenza della componente sanitaria (il medico competente D.Leg.vo 81/2008). Si devono trovare parametri di riempimento degli edifici cui deve corrispondere la misura dell’organico di istituto, anche in relazione ai diversi indirizzi di studio.

Cinquant’anni dalle prime elezioni regionali, vent’anni circa dalla riforma del titolo quinto, scadenze che dobbiamo richiamare proprio in questa emergenza, che ci aiutano non solo nell’allerta sanitaria, ma nel procedere del cammino istituzionale. La Repubblica nasce nel rifiuto del carattere autoritario e centralista dello Stato, per l’identità dei territori che sono la ricchezza della civiltà italiana, dice il presidente Mattarella. Il principio di autonomia delle regioni e degli enti locali, al quale si aggiunge nella riforma costituzionale quella delle scuole, è alle fondamenta della costruzione democratica. Le diversità, se non utilizzate in modo improprio, sono ancora parole della più alta magistratura statale, sono un moltiplicatore di crescita, civile, economica e culturale. Ed anche l’Europa è chiamata a valorizzare la dimensione regionale come vettore per l’integrazione.

Siamo alla vigilia di elezioni regionali e la pandemia nei sondaggi vede la gente apprezzare i presidenti delle regioni in una gestione vicina ai cittadini, nel bene e nel male. Un movimento trasversale che si aggiunge a quello delle cento città, con l’elezione diretta del sindaco, che in passato ha suscitato diffidenza e irritazione da parte della politica centralista di diversi schieramenti. La mappa del potere però sta cambiando e speriamo che la campagna elettorale non ci riproponga i soliti conflitti della politica nazionale. Queste elezioni, che peraltro ci danno il virus ancora presente nelle nostre comunità, dovrebbero essere il banco di prova del cambiamento culturale che ci faccia uscire dagli interessi di bottega e faccia emergere le esigenze dei territori. E’ sotto gli occhi di tutti un rimescolamento delle tradizionali provenienze politiche in relazione alla diversità delle realtà locali che il covid con il suo rapido cambiamento ci fa apprezzare in diretta, da una regione all’altra.