Dovremo reimparare a vergognarci… per insegnarlo

Dovremo reimparare a vergognarci… per insegnarlo

di Maria Grazia Carnazzola

Ieri l’altro, vicino a Crema, è successa una cosa terribile, così terribile da sembrare impossibile: una donna si è data fuoco in un campo, vicino a un supermercato, ed è arsa viva. C’erano molti altri nelle vicinanze: uno solo ha cercato di intervenire per spegnere le fiamme, gli altri, una ventina, guardavano e filmavano con i telefonini. Come se l’abitudine alla spettacolarizzazione e “all’effetto di realtà e del mutato senso di lontananza” indotto dai media- televisione in primis-si fosse capovolto e quella fosse una fiction. Ma lì una donna moriva davvero, a pochi metri. E c’era chi pensava a riprendere: un esempio di polarizzazione dei comportamenti di un gruppo o di mentalità di branco.  Ho provato un profondo senso di vergogna e di scoramento. Ha ragione E. Morin quando sostiene che gli sviluppi tecnici ed economici della nostra civiltà sono legati, inevitabilmente, al sottosviluppo psichico e morale e che il solo antidoto all’estrema fragilità dell’alta complessità è il sentimento agito di solidarietà, cioè di comunità tra i membri di una società.

  1. Dovrebbe vergognarsi, ma non si vergognano…

Sono espressioni che capita di sentire, dopo fatti come questo. Già, perché a vergognarsi dovrebbero sempre essere gli altri. E poi, diciamocelo, la parola vergogna compare raramente, quasi mai: è una parola desueta nella forma quanto devastante nella sostanza. Così, quando si sbaglia a decidere o volutamente si sceglie per il proprio tornaconto, si fa finta di niente e si tira dritto. Bisognerebbe avere il coraggio di usarle le parole e di vivere quello che evocano. Vergognarsi è un verbo intransitivo e riflessivo: ci si può vergognare di e non per, ci si può vergognare di sé stessi o di qualcosa, anche se non si è direttamente responsabili di quel qualcosa. Il Grande Dizionario della Lingua Italiana definisce la vergogna come il “sentimento più o meno profondo e intenso di turbamento, di mortificazione, derivante dalla consapevolezza che un atto, un comportamento, un discorso proprio o altrui sono riprovevoli, disonorevoli o sconvenienti”. Un sentimento dimenticato e una definizione che richiama etimologicamente la vicinanza, nelle lingue classiche, tra le parole vergogna, rispetto, onore, dignità. Parole smarrite o diventate gusci svuotati di senso, slogan.

  • E la scuola…

L’ educazione è sempre “politica”, esiste dentro a una cultura i cui valori o disvalori sono determinanti per il modo in cui le capacità della mente vengono sviluppate.

 Se la scuola vuole continuare ad avere il compito di educare, dovrà rivisitare i fini del suo esserci e, solo dopo, pensare ai mezzi e agli strumenti. Dovranno trovare posto, insieme alle conoscenze disciplinari, le conoscenze relative alla realtà contemporanea e le conoscenze relative al sé, alla consapevolezza della propria identità, dei propri tratti cognitivi e comportamentali, delle proprie gerarchie di valori, di emozioni e di sentimenti.  Promuovere competenze sociali e civiche in una società che va in un’altra direzione non è facile, ma la scuola può tornare a riflettere, con studenti e genitori, anche su quei comportamenti che non sono così gravi  da essere sanzionati, sui tratti più fondanti del vivere in comunità come la gentilezza, la cortesia, il cercare un accordo, il non criticare le persone ma le idee…per costruire una trama di regole, di principi e di valori in cui la collettività possa riconoscersi. Si può fare, se oltre al senso del dovere si ha passione per quello che si fa. Si tratta di definire i criteri di riprovazione sociale e di discriminazione tra giusto e sbagliato, tra bene e male, con riferimento al bene comune. L’Educazione Civica è essenzialmente l’educazione dei cittadini e un accenno alla Dichiarazione universale dei diritti umani forse non guasterebbe.

  • Si può educare se si ha paura?

Se parliamo di una formazione finalizzata alla promozione di uomini e di cittadini autonomi e responsabili, dobbiamo cominciare con il riconoscere che un curricolo per l’educazione alla cittadinanza confligge apertamente con i processi culturali e sociali in atto, fatto questo testimoniato anche dallo smarrimento del senso di comunità e di collettività, dalla leggerezza dell’azione politica orientata al perseguimento del benessere personale immediato- più che alla costruzione di garanzie collettive- azione che non sa costruire un sentire comune che fondi identità e appartenenze per proiezioni personali e sociali. La cultura del diritto si è smarrita nella rivendicazione, nella rinuncia, nell’ accaparramento aggressivo di un tornaconto privato e immediato. Il senso del dovere, quando compare in qualche discorso, viene contraddetto dai fatti, che fanno emergere la crisi di valori della vita pubblica e della vita privata di tutte le fasce sociali, raccontati in modo spregiudicato dai media. Lo sviluppo delle competenze, che fondano le autonomie personali, richiama componenti cognitive, motivazionali, sociali, culturali, etico- valoriali e metacognitive. Vergognarsi è un atto di metacognizione attraverso il quale si riconoscono e si analizzano i propri errori per emendarli. È “un’emozione adulta, implica un giudizio su se stessi” sostiene G. Carofiglio, ed è collegata alla perdita della stima di sé stessi prima ancora che della stima degli altri. È un’emozione di cui si dovrebbe prendere coscienza: quando si parla di educazione dei sentimenti, di questo si parla. I contenuti del sentimento riguardano la rappresentazione di un particolare stato del corpo e del mondo che si manifesta in una certa modalità di pensiero, sostiene A. Damasio. La vergogna è un sentimento che può svolgere una funzione termostatica importantissima per contrastare i deliri di onnipotenza. B. Pascal riteneva che la mancanza di vergogna fosse pericolosissima perché coincide con la mancanza di dignità e di onore. Provare vergogna è un sintomo di salute morale e non, come si intende comunemente, l’equivalente di fallimento o di frustrazione: si ha vergogna di avere vergogna. Questo passa sui sistemi di informazione e sui social network che determinano la cultura dei giovani più della scuola, ma proprio la constatazione dell’effetto di massificazione e di omologazione del pensiero, dovrebbe spingere la scuola a porsi coraggiosamente domande sul senso del suo operare e di interpretare la funzione formativa nella società contemporanea. Può la gente di scuola tacere su fatti come questi? E per gente di scuola intendo tutti coloro che con il mondo dell’educazione hanno a che fare, compreso chi da mesi si occupa esclusivamente di mezzi e di strumenti, confondendo gli obiettivi con le conseguenze, senza minimamente pensare a un fondato progetto teoretico che si faccia carico della situazione reale e indichi una via. La psicologia ci ha insegnato che la scuola esiste per collaborare all’educazione dei giovani, che il dialogo e la riflessione sono strumenti migliori della punizione, che le regole della convivenza civile si apprendono nei contesti di vita, che la solidarietà e il rispetto della sofferenza sono fondamentali, ma fatti come questi testimoniano ancora una volta che sono parole e che i ragazzi sono vittime degli atteggiamenti  e dei comportamenti degli adulti. 

  • Conclusioni.

Ma se gli adulti non sanno fornire parametri certi per distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito e i criteri di riprovazione sociale, credo che la situazione debba essere considerata in tutta la sua gravità dall’intera comunità, pena l’alienazione sociale.  La scuola deve avere il coraggio di agire, può farlo con autorevolezza e senza paure, investendo su rinnovate professionalità che vengono prima e sono altra cosa rispetto ai mezzi tecnologici, superando la tentazione di un’amicalità che forse evita bullismi ma non porta con sé la credibilità dell’istituzione né il rispetto per le persone. I segnali di questo pericoloso degrado vengono da lontano e  la violenza e la concretezza di certi fatti, che ci arrivano come colpi in pieno viso, risveglia l’attenzione della società civile, attenzione che durerà il breve spazio di qualche intervista, di qualche dichiarazione, di qualche proclama, con parole e con enunciazioni di principio che non riescono a costruire nuova eticità, ma che chiudono nella spettacolarizzazione e nella personalizzazione lo spazio pubblico di dibattito che aprono.

BIBLIOGRAFIA

A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Adelphi Edizioni S.P.A., Milano 2003;

S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino 2002;

B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino 2004;

J. Bruner, La cultura dell’educazione: nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano 1997;

E. Morin, L’identità umana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002 (pagg.204/205);

S. Sloman – P.Fernbach, L’illusione della conoscenza, perché non pensiamo mai da soli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018;

S. Dehaene, Imparare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019; Dichiarazione universale dei diritti umani, 10 dicembre 1948.