Tartarino sulle Alpi ovvero il rientro a Scuola

Tartarino sulle Alpi
ovvero il rientro a scuola

di Maria Grazia Carnazzola

Leggendo i vari documenti ministeriali che si sono susseguiti dall’inizio della pandemia, ma soprattutto quelli degli ultimi due mesi, ho cercato di raffigurarmi come potrà essere il rientro a scuola il prossimo settembre, con tutte le misure di prevenzione per evitare/contenere il contagio e preservare la salute di bambini e ragazzi e, ovviamente, del personale. Salute fisica beninteso.

 Il rimando a Tartarino di Tarascona, e alle sue avventure così sapientemente raccontate da A. Daudet in Tartarino sulle Alpi, è stato immediato. Tartarino: il velleitario provinciale che con incosciente coraggio trae forza dai propri difetti per dare un’aurea di grandezza alle mancanze e per continuare a credersi all’altezza delle proprie aspirazioni. Ingigantendo e mistificando i fatti, perché è un imbroglione, non si accorge dei raggiri di cui è vittima. Così crede davvero che la Svizzera, di cui si appresta a scalare le più alte vette, sia davvero una grande azienda turistica che tutela gli scalatori dalle insidie della montagna rendendole innocue: in fondo ai crepacci ci sono materassi e i visitatori sono vigilati passo passo da una schiera di invisibili impiegati che risolvono ogni problema. Non bisogna preoccuparsi, tutto è stato previsto. Chissà se alla fine anche a scuola, dopo rilevazione di temperatura, mascherina, sanificazione, distanziamento, sedie rotanti, banchi innovativi…ci sarà un Bompard che spiega che tutta questa efficienza può lasciare il tempo che trova se non viene inserita in un percorso di insegnamento/apprendimento che riconsegni alla scuola il suo specifico compito formativo di istruzione, per dare significato a tutta l’operazione e conferirle la necessaria efficacia. 

1. Andare a scuola: un posto dove si va o un lavoro che si fa?

Ho timore che si stia andando verso due disastri, uno sanitario e l’altro culturale. Per evitare il primo riconosco che molti sforzi si stanno facendo, anche da parte del Ministero dell’istruzione; per evitare il secondo si fa poco o niente: nessun progetto teoretico da affidare alle scuole per la trasposizione organizzativa e tecnico-operativa, pensando al futuro dei giovani. Ho già avuto modo di scrivere che, nel corso di tutta questa lunga e complessa operazione di marketing comunicazionale, si è dimenticato proprio l’aspetto centrale della scuola: un progetto culturale serio che indichi il patrimonio conoscitivo e tecnico complessivo di cui la società dispone attualmente e sul quale occorre riflettere per individuare, in termini probabilistici, ciò che dovrà permanere e ciò che dovrà cambiare per il futuro prossimo e meno prossimo. Sappiamo, ce lo dicono scienziati di settori diversi, che le cose sono cambiate e che difficilmente torneranno nel modo che conoscevamo, questo la scuola lo deve dire con chiarezza ai giovani. Il “come è stato” appartiene alla nostra memoria, il “come sarà” appartiene alla speranza; memoria e speranza sono le due dimensioni che la ragione da sola non può collegare senza il sentimento. “Sono io il mio tempo?” si chiedeva Heidegger. Tocca a ciascuno di noi recuperare il senso delle cose fatte e non fatte; tocca a ciascuno di noi comprendere perché alcune non sono state fatte; tocca a ciascuno di noi riconoscere i successi e gli errori commessi: solo così si può imparare, perché l’apprendimento è una dimensione personale e nessuno può farlo per noi.   Una scuola che meriti questo nome si occupa fisiologicamente del cosa insegnare e del come insegnarlo, monitorando e valutando gli esiti del proprio operare sul piano degli apprendimenti e delle prassi di insegnamento, per la necessaria retroazione. La consapevolezza che una generazione non può esistere solo nel presente e solo per se stessa, porta in evidenza il danno arrecato dalla anticipazione dei benefici per il benessere attuale, a fronte dei costi- posticipati- che saranno pagati dalle generazioni future. Quali i diritti per le generazioni future? Il diritto soggettivo diventa non esigibile ogni volta che si rompe l’unità di tempo: le generazioni future non avranno diritti da far valere giuridicamente nei confronti di quelle precedenti, ma queste hanno senza dubbio dei doveri nei loro confronti. L’educazione e l’istruzione fanno parte di questi doveri. Possiamo insegnare quello che sappiamo- il passato-, a osservare il presente, ma il futuro- il non ancora- non possiamo insegnarlo. Possiamo però insegnare a chiedersi come potrebbe essere, immaginando configurazioni del possibile e facendo i conti con l’imponderabile. Questa è la complessità, di cui tanto si parla, che richiede una diversa impostazione ermeneutica, un nuovo modo di confrontarsi con gli accadimenti del presente- che è spazio temporale aperto al divenire, al personale divenire nel tempo- e a confrontarsi con le narrazioni del presente per elaborare un progetto personale e collettivo di cui non si indica la via, ma si insegna a vedere le vie possibili. Anche da quello che insegniamo, e da come lo insegniamo, dipenderanno le vicende collettive e individuali e non saranno tanto i nuovi linguaggi a fare la differenza, ma le nuove visioni.

Edgar Morin sostiene che la cultura mantiene l’identità umana nei suoi tratti specifici e che le culture mantengono le identità sociali nelle loro specificità. Dovremmo ricordarcelo, noi persone di scuola, quando entriamo e quando usciamo da un’aula o progettiamo un percorso curricolare.

2. L’errore non è la punizione.

Tocca a ciascuno di noi riconoscere gli errori commessi, ho detto più sopra. Stanislas Dehaene ritiene che “il ritorno sull’errore, che confronta le nostre predizioni con la realtà e corregge i nostri modelli del mondo” sia uno dei quattro pilastri dell’apprendimento, uno dei parametri educativi più influenti: la qualità, la precisione e la tempestività del feedback determina la velocità con cui impariamo. Ma ritiene anche che l’errore non vada confuso con la colpa. Sbagliare è un evento “normale” in tutte le attività umane, permette di confrontare l’esito dell’azione con l’ipotesi formulata sulla base degli stimoli ricevuti. Succede nella vita di tutti i giorni, nella ricerca scientifica, a scuola, all’università… Quando un insegnante aiuta a riscontrare un errore e indica esattamente come si sarebbe dovuto procedere per non sbagliarsi, arricchisce e facilita l’accesso all’informazione e alla conoscenza. Non è evitando che si commettano errori, quindi addomesticando le richieste, che si aiutano i ragazzi a crescere e a diventare consapevoli del proprio sapere e del proprio non sapere. Così Gaston Bachelard “Sono stato spesso colpito dal fatto che i professori di scienze, più degli altri se possibile, non capiscano che non si capisca. Poco numerosi sono quelli che hanno indagato la psicologia dell’errore, dell’ignoranza e della mancanza di riflessione”. Su questo, e su quello che è successo quest’anno, bisognerebbe riflettere per comprendere quante opportunità di capire, di correggersi e di crearsi un catalogo di errori possibili sono state negate ai ragazzi, a scuola e all’università.   Ma non bisogna confondere gli errori con le sanzioni.  Segnalare un errore non è giudicare: è dire la verità e insegnare che riconoscere l’errore significa aiutare a capire che solo chi non fa non sbaglia: non bisogna temere di mettersi alla prova. 

3. Conclusioni.

Zygmunt Bauman ci ha insegnato molto sull’incertezza del futuro, ma forse l’incertezza che fa più male è, come stiamo sperimentando, l’incertezza del presente; è questa, penso, che si deve imparare e insegnare a governare per prima, perché l’idea del futuro giustifica e motiva il pensiero e l’azione nel tempo che si vive.  Siamo insidiati e assediati dall’incertezza. Possiamo rassegnarci a subirla, limitandoci a pensare agli strumenti per contenerne i danni, o rompere l’assedio pensando un progetto di formazione che rifondi le vecchie idee e crei nuove certezze, puntando sulla flessibilità per governare l’instabilità e le turbolenze, imparando e insegnando a riprogettare e a intraprendere con prudenza strade nuove. Questo la scuola oggi dovrebbe fare, senza pretese di certezze assolute da affidare agli algoritmi e ai sistemi computazionali, confidando in se stessa, negli altri e un po’ nella buona sorte.

BIBLIOGRAFIA

G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995;

Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999;

S. Dehaene, Imparare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019;

M. Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998; E. Morin, La via per l’avvenire dell’umanità, Cortina, Milano 2012;

G. Zagrebelsky, Senza adulti, Einaudi, Torino 2016.