Mamma caregiver “regala il sole” a suo figlio

da Redattore Sociale

Mamma caregiver “regala il sole” a suo figlio: finalmente Simone abita al piano terra

di Chiara LudovisiE’ stato il regalo per il suo 25° compleanno: dopo una lunga battaglia, Sara Bonanno ha ricevuto dal Comune una casa al piano terra, in una palazzina dell’Ater: da 20 anni viveva in una casa al settimo piano, dove le barriere architettoniche impedivano a suo figlio di uscire dalla stanza. “E’ finita una segregazione durata dieci anni: mi rendo conto ora di quanto mio figlio abbia sofferto questa violenza”

Sara e Simone in giardino

ROMA -”Per il suo 25° compleanno, volevo regalargli il sole. E ci sono riuscita!”. Sara Bonanno finalmente sorride ed esulta, mentre mi mostra “la casa dei miei sogni”, quella che ha finalmente, una settimana fa, messo fine alla “segregazione” a cui suo figlio era condannato da dieci anni, al settimo piano di un palazzo popolare in zona Tiburtina, a Roma. Aveva 14 anni, Simone, quando la sua malattia è peggiorata: non poteva più stare seduto, non riusciva più a deglutire: così “si è allettato, costantemente monitorato e assistito. E da allora non è più uscito dalla sua stanza”. Colpa di una casa con troppe barriere architettoniche e di un palazzo con un ascensore in cui il suo “letto a rotelle” non poteva entrare. Né poteva uscire in balcone, perché l’apertura era troppo stretta, nonostante il generoso intervento di un falegname volontario, che anni fa aveva fatto quel che poteva per ingrandirla.

10 anni in una stanza

Così, per dieci anni, Simone è rimasto chiuso nella sua stanza, senza mai vedere il sole, senza prendere aria, senza mai sentire un odore o un rumore che non fossero quelli di casa sua. Al settimo piano di quel palazzo popolare, assegnato anni fa alla famiglia per le sue condizioni socio-economiche svantaggiate, Simone e Sara vivevano dal 1999: Simone aveva pochi anni e dopo poco il papà morì. “Restammo soli, io e lui – ci racconta Sara – ad affrontare i problemi che diventavano ogni giorno più grandi. I primi anni uscivamo sempre, in casa non stavamo mai: la sedia a rotelle entrava tranquillamente nell’ascensore e andare fuori non ci spaventava. Simone andava a scuola, frequentava gli amici, andava in piscina: nonostante tutto, conduceva una vita abbastanza normale. Poi, a 14 anni, tornando da un campo scuola, per la prima volta ebbe difficoltà a deglutire. Fu l’inizio di un rapido e inesorabile peggioramento: due brutti interventi aggravarono la situazione, perse 20 chili e con questi tutte le sue forze. Presto non riuscì più a stare seduto, mentre sollevarlo diventava sempre più difficile. Così, si ritrovò bloccato a letto: impossibile spostarlo dalla stanza”.

“Gli ho regalato il sole”

Simone ha compiuto 25 anni il 17 luglio scorso: quel giorno finalmente è uscito dalla sua stanza, “con grande fatica e trambusto – assicura Sara – dopo dieci anni di segregazione. Da quel giorno viviamo qui, nella casa che sognavo”, racconta, mostrandomi orgogliosa le stanze ancora disadorne e il giardino già ben curato: “E’ stato un pensiero bellissimo dell’Ater, l’ente gestore dell’edificio popolare – ci racconta -: hanno seminato tutte piante odorose, perché Simone non riesce a vedere ma sente bene i profumi”. Ed è veramente un sogno che si realizza, per lei, vedere suo figlio godersi il fresco in giardino, mentre Giada, sua ex compagna di classe e oggi sua educatrice, lo intrattiene con musica e canti. “Da quando ci siamo trasferiti, Simone vuole stare sempre fuori: quando gli propongo di entrare, si innervosisce – assicura Sara – E questo per me è una coltellata, perché pensavo, mi raccontavo, di avergli dato tutto ciò di cui aveva bisogno: attenzioni, amore, personale competente. Ma quella serenità che mi sembrava di leggere nei suoi occhi era solo rassegnazione: aveva bisogno di aria e di luce, di rivedere e risentire il mondo. E di esserne parte”.

“In quel palazzo, avevamo smesso di esistere”

E mi racconta un aneddoto, Sara, per farmi capire quanto sia “violenta ogni forma di segregazione e quanto la casa in cui si abita possa cambiare la vita di tutti, ma soprattutto di persone come Simone. Venerdì scorso, mentre lasciavamo il vecchio appartamento, tanti inquilini del palazzo si sono affacciati, incuriositi dal movimento e dal trambusto: nessuno di loro sapeva chi fosse Simone. Lo avevano visto entrare anni prima, quando ancora era un bambino. Lo rivedevano uomo e non lo riconoscevano. In tutti questi anni, per loro lui non era esistito, poteva anche essere morto. Simone era scomparso dal mondo. Quando siamo arrivati qui, a pochi chilometri dalla nostra vecchia casa ma in un contesto completamente diverso, abbiamo ricevuto un’accoglienza che mi ha commosso: nel nostro giardino, all’interno del cortile condominiale, tutti hanno potuto vederci, si sono accorti di noi. Il giorno dopo, la signora di 90 anni che vive al piano di sopra è scesa con un thermos di caffè, l’anziana che vive qui accanto mi ha portato pomodori col riso e anguria. Improvvisamente, siamo tornati a far parte del mondo, siamo usciti dall’invisibilità e dall’isolamento. La segregazione è finita”.

“Quel terremoto, senza poter scappare…”

Se oggi è il momento della gioia e della festa – “Non mi sembra vero!”, ripete ogni tanto Sara –, non si dimentica però il prezzo che si è dovuto pagare, in termini di fatica, di lotta, perfino di umiliazioni. “Era chiaro da anni che quella casa non fosse adatta a me e Simone – ricorda Sara – Si era reso ancor più evidente in due circostanze: la prima, quando Simone si è sentito male e l’ambulanza non è riuscita a farlo uscire di casa per portarlo in ospedale. La seconda, quando la notte c’è stato il terremoto e tutti nel palazzo sono usciti, mentre noi siamo rimasti chiusi dentro”. Per due volte Sara aveva chiesto un cambio di alloggio al comune di Roma, ma non aveva ricevuto risposta. La terza volta, “con l’aiuto della Asl, in particolare grazie mio prezioso case manager Francesco Meloni e alla responsabile dell’assistenza domiciliare Maria Antonietta Di Roberto, ho deciso che sarei andata fino in fondo. Non l’avrei fatto, senza l’incoraggiamento, la vicinanza e il sostegno pratico di amiche come Elena Improta, che pur vivendo lei stessa una situazione molto difficile, si è spesa tantissimo, ha fatto di tutto, dall’organizzazione dei lavori di ristrutturazione al trasloco all’arredamento. Devo a lei questo sogno che si realizza e mi addolora tanto che lei debba trasferirsi in Toscana per realizzare il suo: qui a Roma non è riuscita a dar vita al suo progetto per il Dopo di noi, così ha deciso di andarsene, per regalare a suo figlio Mario il futuro che desidera per lui. Roma lascia andar via una grande donna. È difficile e faticoso lottare per i nostri figli, far valere i loro diritti, non rassegnarci: ma la mia storia e la gioia che oggi provo, di fronte al sorriso di Simone cullato dal canto delle cicale, insegna che non dobbiamo mollare: la segregazione non deve essere mai accettata come soluzione, né come possibilità, neanche con una pandemia in corso. Si dice che i malati stiano bene in ospedale, ma oggi credo che anche gli ospedali dovrebbero essere più aperti, perché Simone è rifiorito e io con lui, dopo anni di abbrutimento, in cui ci stavamo lasciando andare. Non permettiamo che altri figli e altre mamme diventino invisibili, inesistenti agli occhi nel mondo, chiusi tra le loro quattro mura. Io qui non faccio che pulire, mi sento rinata e ho ritrovato il sorriso: continuo a non avere un soldo, a mangiare grazie alla Caritas e a spendere tutta la pensione di Simone e di mio marito in medicine e assistenza. Ma vedere Simone baciato dal sole e i suoi capelli mossi dal vento mi fa dimenticare ogni problema. E sapere di essere visti, magari ‘sbirciati’, da chi passa qui fuori, o da chi si affaccia a una delle tante finestre che danno sul nostro giardino, mi fa sentire che siamo tornati ad essere parte del mondo. Ed è di questo, più di ogni altra cosa, che tutti, proprio tutti, abbiamo bisogno”.