Un ammasso di formiche felici

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Torneremo ad essere un “ammasso di formiche felici”?

di Maria Grazia Carnazzola

1. Premessa

A volte rimaniamo così legati alla nostra visione del mondo, da arrivare ad affrontare la crescente complessità delle situazioni che viviamo utilizzando l’approccio classico, quello che consiste nello scomporre la situazione contingente in singole parti da analizzare e studiare separatamente, con l’intenzione di arrivare alla comprensione dell’intero. Sappiamo, però, che l’intero è qualcosa di più e di diverso dalla somma delle sue parti e, infatti, la strategia della scomposizione non funziona. Lo verifichiamo, purtroppo, nel modo con cui vengono oggi affrontate la questione dei migranti, della sanità o nelle misure che il Ministero dell’Istruzione ha pensato per la ripartenza della scuola il 14 settembre. Misure che, fossero anche plausibili e potenzialmente coerenti al loro interno, nell’insieme non possono funzionare. I diversi tasselli – distanziamento, mascherine, mense, sanificazioni, banchi, rilevazione della temperatura, test sierologici, docenti in più, altro personale scolastico – che riguardano la scuola non bastano a disegnare un percorso complessivo per il ritorno alla “normalità”, se non si tiene conto dei trasporti, della sanità, degli enti territoriali, delle famiglie, del lavoro. Ci sono deduzioni corrette che, partendo da premesse sbagliate, portano all’insuccesso. In questo caso non serve controllare e ricontrollare o modificare le deduzioni: vanno riconsiderate e riformulate le premesse. P. Watzlawick sostiene che questo accade perché tendiamo a considerare le premesse che hanno provato la propria correttezza ed efficacia in passato come fossero aspetti della realtà, modello di come le cose devono essere realmente affrontate.

2. Cambiare la struttura

Ci sono, però, soluzioni che hanno funzionato nel passato ma che non sono applicabili alla situazione presente. La scuola deve essere in presenza? Niente di più condivisibile. Ma ciò non significa necessariamente, nella situazione contingente, in presenza per tutti contemporaneamente. Gli allievi potrebbero essere scaglionati, per classi, per biennio-triennio… che frequentano in giorni diversi, in settimane diverse, o secondo scansioni temporali differenziate a seconda dell’età e dei bisogni formativi. Si conterrebbe l’affollamento sia sui mezzi di trasporto, sia all’esterno e all’interno delle scuole. Si potrebbe alternare l’attività in presenza e a distanza, salvaguardando la qualità della didattica e la finalità della scuola. In presenza gli aspetti più generativi, che richiedono maggiori interazione e confronto o le verifiche, integrati a distanza dagli approfondimenti (personalizzati), dalle esercitazioni, dai test. Dovendo salvaguardare contemporaneamente la salute e l’educazione, i due pilastri del futuro del Paese, non possiamo scindere i due aspetti e concentrarci su uno per volta. Non basta cambiare le regole del sistema: distanziamento, accessi distinti…, va pensata una regola che cambi il funzionamento del sistema stesso e ponga fine al circolo vizioso. Un esempio di grande effetto che spiega questo funzionamento lo troviamo nel testo di Schneirla e Piel sul comportamento altamente organizzato delle formiche legionarie, esempio scelto per rappresentare un sistema che non riesce a generare al suo interno un cambiamento che assicuri il successo, in questo caso la sopravvivenza della tribù di formiche. Ho già avuto modo di scrivere che i sistemi non possono apprendere senza commettere errori, ma gli errori vanno guardati e considerati cercando di capire come sopravvivere all’insuccesso, a volte cambiando le singole azioni, altre modificando le premesse e le regole di secondo ordine, cioè le regole stesse del sistema, risignificando così la situazione per cercare di prevenire o almeno di contenere problemi futuri. O continueremo a comportarci come quel tizio che ogni venti minuti batteva le mani per scacciare gli elefanti e che, a chi gli faceva notare che non c’erano elefanti, rispondeva: -Visto, funziona! -.

3. Non fare “come se”…

I sistemi in genere si oppongono al cambiamento della propria struttura: è come se di fronte a un insuccesso il sistema cercasse di tornare al momento precedente a quell’insuccesso e da lì ripartire, cambiando le modalità e le azioni senza cambiare la struttura. Non può funzionare. Se le cose non stanno “come prima”, il sistema non può funzionare come prima, le regole di funzionamento vanno cambiate. Vale anche per il sistema scuola. Ma cambiate come? La risposta non può che rinviare al mandato sociale della scuola e alle sue “missioni” nella società e nel mondo del ventunesimo secolo. Il che equivale a chiedersi quale mandato società affidi al mondo della formazione, quale sia il senso del fare e dell’andare a scuola, per quanto tempo bisogna starci e come spendere quel tempo. Ma anche -e questo è un problema ora non più rinviabile- di come coniugare le tecnologie disponibili in questo XXI secolo con le pratiche pedagogiche, didattiche e organizzative del passato per non diluire l’efficacia dei percorsi scolastici.

I temi di fondo li troviamo nei diversi documenti programmatici; tutti convergono sulle stesse finalità: educare a vivere con gli altri; educare al lavoro, sia esso pratico o intellettuale; lavorare per il successo formativo di tutti e di ciascuno, finalizzando l’istruzione alla formazione e all’educazione; a comprendere il presente per pensare il futuro; a educare ai diritti e ai doveri, al rispetto delle regole, alla libertà. Tenendo conto che la libertà, intesa come libertà di e non libertà da, è un punto di arrivo della formazione personale. Qui si inserisce il delicatissimo aspetto dell’abbandono precoce e della dispersione scolastica: non si può fingere di ignorare che un abbandono precoce segna per tutta la vita e si traduce in un costo personale e sociale. Perché la perdita degli studenti non è casuale, riguarda soprattutto quelli che già in partenza sono i più deboli e che, se lasciano, la scuola manca uno dei suoi compiti: quello di agire da fattore unificante della società civile, attraverso un trattamento equo per tutti. Il mandato sociale richiede che tutti escano dai percorsi di formazione con un bagaglio di conoscenze e di competenze sufficienti per inserirsi nella vita adulta ed essere cittadini attivi. Una politica sociale dell’istruzione è al servizio degli utenti così come essi sono, non come vorremmo che fossero. Quindi quali conoscenze e quali competenze, apprese e sviluppate in quali modi, con quali strumenti, in quali tempi, con quali garanzie e differenziazioni… di questo poco o niente si dice. L’istruzione è un investimento a lungo termine, quello che viene investito oggi, non solo in termini di spesa, lo si vedrà, nel bene e nel male tra venti anni; allora vedremo se davvero mettere risorse a pioggia in un sistema che fa fatica a funzionare, senza ripensarne il modello, costituisce solo uno spreco nel breve periodo o ha una pesante ricaduta sul futuro. Le risorse, necessarie -non solo economiche- devono essere mirate e collegate a un attento monitoraggio dei risultati e sappiamo che la qualità degli insegnanti è la variabile maggiormente in grado di influenzare la qualità degli apprendimenti. In momenti come quello che stiamo attraversando, ma ancora di più pensando a un futuro, di cui non sappiamo e che si profila incerto, la necessità di percorsi di formazione fondati su saperi disciplinari forti, su competenze di base specifiche e trasversali, su valori che fondino categorie di giudizio per un orientamento personale e sociale, è evidente. Ripensare a come potrebbe essere la Scuola è un passaggio urgente, cercando di non confondere di nuovo i mezzi con i fini e il concetto di educazione imparziale con quello di educazione neutrale che, di fatto, si identifica con la rinuncia a educare. J. Bruner ebbe a scrivere che i sistemi simbolici propri di una cultura, i valori – o i disvalori – che costituiscono il “clima” educativo di una scuola sono determinanti rispetto al modo in cui le capacità della mente vengono usate e sviluppate. Conta moltissimo, in particolare, come gli studenti vivono la scuola in cui studiano e la posizione che essa assume nella loro cultura. Non possiamo fare “come se” tutto questo fosse la scontata e automatica conseguenza di maggiori spese, distribuite a pioggia sul sistema.

4. Conclusioni

La scuola è una funzione dello Stato sovrano, ma prima ancora è un servizio al cittadino, deve istruire, formare, educare facendo leva sul perché più che sul cosa, dando ragione con spirito critico dei valori della nostra cultura e delle regole che permettono di rispettare i diritti di tutti e di ottemperare ai propri doveri. In questo momento è indispensabile che tutti, anche bambini e ragazzi – nei modi e con le parole più adatte a loro – conoscano i problemi del mondo in cui viviamo e siano aiutati a dotarsi degli strumenti necessari per riconoscerli e governarli, senza esporsi a sfide fuori dalla propria portata ma imparando a orientarsi e a scegliere. Nietzsche riteneva che le persone sopportano qualsiasi come finchè hanno un perché. E il perché è rappresentato da un’idea di futuro dove l’esercizio responsabile dei diritti e dei doveri di cittadinanza permetterà a ciascuno di partecipare consapevolmente alle istituzioni democratiche, al mondo del lavoro per una vita buona. Per quanto tempo un Paese che non dedica attenzione alla qualità degli esiti della formazione e ai livelli di indebitamento pubblico, potrà continuare ad offrire ai suoi giovani un avvenire sereno.

BIBLIOGRAFIA

P. Watzlawick, Guardarsi dentro rende ciechi, Salani Editore, Milano 2007.

T. Schneirla, G. Piel, L’esercito delle formiche, Martello Editore, Milano 1957.

J. Bruner, La cultura dell’educazione, nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano 1997.