I genitori in ansia “I nostri figli bloccati in classe”

da la Repubblica

Maria Novella De Luca

ROMA — «Amore mio, eravate distanziati? ». Antonio: «Sì, mamma, però ho prestato la mia mascherina a Giacomo. Paura, eh, era uno scherzo». Mamma: «Scemo, è una c osa seria». Eccoli qui, irriverenti e frastornati i dodicenni del primo giorno di scuola dell’era Covid, escono a gruppetti sotto il ritratto della regina Margherita di Savoia, hanno mascherine tatuate di decori floreali, pulp, indie, alcuni sono bambini, altri adolescenti, così come capita nella strana età di mezzo.

Bernardo, papà di Alice, al suono della campanella, accenna un applauso: «Temevo che i nostri figli non potessero più sentirlo questo “drin” che ha scandito la giovinezza di tutti noi, l’affanno del mattino, la felicità dell’ultima ora». Amarcord. Ieri, ore 12,30, davanti alla scuola primaria “Regina Margherita” di Roma, scuola pubblica più antica della Capitale, 1888 l’anno di inaugurazione, da qui escono anche gli adolescenti della media “Ugo Foscolo”, sull’acciottolato di Trastevere fa caldo come ad agosto.

Mamme e papà arrivano a piedi, il capannello si forma subito, la distanza, insomma, un ricordo, molti erano qui anche all’entrata, alle 8, tante le facce insonni ed emozionate. Patrizia Todaro aspetta l’uscita di Giulia, 11 anni, è tra le più piccole, appena approdata in prima media. «Ho una grande ansia, lavoro anch’io nelle scuole, tutte le misure anti-Covid sono giuste, mia figlia non vedeva l’ora di tornare in classe. Ha rivisto le sue amiche e si sono abbracciate. Come potevamo fermarle? Non capisco tutto questo allarmismo dei genitori. Le regole sono chiare, basta seguirle e non succderà niente». Speriamo. Eccoli, escono, Prisca, Giorgio e Giacomo, terza media e doccia fredda sugli entusiasmi e sulla retorica (adulta) della ripartenza. «Sì, sì, bella la scuola che riapre, ma dobbiamo stare fermi e immobili nei banchi, non possiamo muoverci, anche la ricreazione, sembra, sarà quasi da fermi. Sapevamo che sarebbe stata dura, ma così è troppo». Voci della realtà, bisogna ascoltarli. I banchi monoposto? «No, niente. Stiamo seduti con il metodo Cuba». Vedere sui social per capire. Vuol dire in due nel banco vecchio, uno al centro, l’altro al capo opposto. Stile castrista per riaprire le scuole a l’Avana senza soldi. Copiato mestamente dai nostri dirigenti scolastici quando si è capito che i banchi rotanti monoposto non sarebbero arrivati in tempo, anzi, forse, mai. «Sai che ti dico — incalza una ragazzina bionda, maglietta Trasher — era meglio la didattica a distanza e poi vedersi il pomeriggio in piazza San Cosimato». Ogni ragazzino che varca il portone finisce divorato nell’abbraccio dei genitori assembrati a capannello, meno male che davanti alla “Regina Margherita” lo spazio è ampio, poco lontano c’è la bellissima basilica di Santa Cecilia, pellegrinaggio dovuto delle ore di Arte. Maria Laura fa la ginecologa e di figli ne ha tre, uno per ogni ordine di studi. «Dal fronte della mia professione dovrei essere più ragionevole degli altri. So che se si seguono le indicazioni, dal Covid ci si può difendere. Ho dato ai ragazzi le mascherine chirurgiche, il gel, tutte le raccomandazioni giuste. Invece — confessa Maria Laura — ho davvero paura. Se qualcuno sbaglia, in questa macchina virtuosa che si è messa in moto, se si allentano le precauzioni, rischiamo un nuovo picco di contagi. E di morti».

Simona, mamma di due gemelli, rilancia il j’accuse dei giovanissimi. «Come faranno a stare immobili per cinque ore, con la ricreazione in classe, dentro quei banchetti di plastica? Avrebbero dovuto darci altre strutture, più grandi, così è come chiuderli in gabbia». Un po’ eccessivo forse, ma nel catalogo genitoriale delle paure del primo giorno, si va dalla prigionia in classe alle mascherine che soffocano, fino all’ossessione dell’igiene. «Hai pulito il banco con le salviettine umidificate, hai passato anche un po’ di gel?», chiedono due giovanissimi mamma e papà a una infastidita ragazzina di seconda media che li guarda rassegnata. Risposta in stile Mafalda. «Sì, ho pulito tutto, ma da domani basta, non lo faccio più, il mio banco puzzava di ospedale».