Le tre urgenze: reclutamento, didattica, edilizia scolastica

da Il Sole 24 Ore 

di Andrea Gavosto

Le scuole provano a ripartire. Fra mille difficoltà: alcune inevitabili per la natura stessa delle dinamiche del contagio; molte altre evitabili, ma causate da una gestione tardiva, incerta e litigiosa da parte di governo, regioni, amministrazioni locali, sindacati ed esperti. Ancora maggiori – alla luce di un’emergenza sanitaria che resta assai minacciosa e non finirà a breve – saranno le difficoltà a dare al nuovo anno scolastico efficacia e continuità, evitando che focolai epidemici circoscritti inneschino “effetti a catena” e portino così a nuovi lockdown estesi, con conseguenze educative, sociali ed economiche ancora più gravi. Di tutto ciò, con ricchezza di analisi, parla questa Guida.

La preoccupazione per i problemi generati dal Covid non deve, però, farci dimenticare che la scuola italiana soffre da tempo di criticità importanti che la pandemia non ha creato. E che non scompariranno quando l’emergenza sarà finita. Diffido delle narrazioni buoniste, secondo le quali il Covid è un’occasione per migliorare la scuola italiana. Certo, presto avremo abbondanza di fondi europei da investire in istruzione. Ma l’Italia ha spesso dato dimostrazione di non sapere utilizzare le risorse a disposizione.

La principale criticità della scuola in Italia riguarda ovviamente la qualità degli apprendimenti degli studenti, inferiore a quella degli altri paesi avanzati. La dispersione scolastica è solo la punta dell’iceberg: oltre alla scomparsa di troppi ragazzi dai radar della scuola e della formazione professionale, ne abbiamo infatti un terzo che, pur conseguendo il diploma, non sa abbastanza per un lavoro e una vita sociale soddisfacenti. La grave perdita di apprendimenti generata dal lockdown può essere la goccia che fa traboccare il vaso, ma il vaso era già colmo ben prima.

E ben prima del Covid erano chiari anche i tre ingredienti principali – non gli unici – di una possibile ricetta per migliorare gli apprendimenti nel nostro Paese: un nuovo modello di reclutamento e di carriera degli insegnanti, una didattica rinnovata nel contesto di una scuola estesa al pomeriggio, interventi sostanziali sull’edilizia scolastica.

Il meccanismo di reclutamento arranca da anni e ora si è inceppato: in molte materie e regioni non si trovano più insegnanti con le giuste qualifiche e capacità didattiche verificate. Questo mismatch disciplinare e territoriale ogni anno lascia scoperte sempre più cattedre di ruolo rispetto alle disponibili (quest’anno due terzi o poco meno delle 85mila autorizzate). Di conseguenza, ogni anno cresce patologicamente il numero di supplenti: quest’anno 250mila, ma senza il Covid sarebbero comunque stati 200mila; la risposta classica sono periodiche sanatorie, nelle quali si assumono docenti per sola anzianità di servizio, senza che mai ne siano state verificate le competenze. Cambiare è necessario, ma difficile. La situazione è forse troppo deteriorata per un ritorno all’antico, cioè a un regolare e selettivo regime di concorsi pubblici. D’altra parte, la chiamata diretta del docente da parte delle scuole, che è adottata in molti paesi, per il momento non convince il mondo della scuola ed è osteggiata dai sindacati.

Una volta in ruolo, gli insegnanti hanno pochi stimoli a migliorarsi. A differenza di qualunque altra organizzazione, la scuola non offre un percorso di sviluppo a chi si impegna, a chi ha doti di leadership e a chi dimostra di saper progredire nel suo mestiere. In assenza di una carriera, diventa difficile attrarre all’insegnamento i miglior laureati nelle varie materie.

Che la didattica in Italia sia arretrata – specie nelle secondarie, dove la lezione ex cathedra resta prevalente – sono gli stessi docenti a riconoscerlo nelle indagini, anche se poi pochi si sforzano di rinnovarla. Gli incentivi a investirvi scarseggiano, ma soprattutto nel nostro Paese l’importanza di “come” si insegna è da sempre ignorata. Con la complicità del sistema universitario, sopravvive la falsa convinzione che se sai le cose, sai anche insegnarle. Ciò avviene sia in fase di formazione iniziale dei docenti – pochissima preparazione teorica alla didattica, inesistente quella pratica – sia a carriera avviata, durante la quale l’aggiornamento incomprensibilmente non è obbligatorio. Il caso della didattica a distanza durante il Covid è emblematico di un modo d’agire ricorrente. L’innovazione è lasciata all’improvvisazione e – quando per avventura dà risultati incoraggianti, ma comunque imperfetti – manca lo sforzo sistematico per perfezionarla ed estenderla. Soltanto la formazione dei docenti a una didattica più versatile, attiva e coinvolgente potrà, però, consentire quel tempo scuola esteso che è una delle chiavi per combattere la dispersione e i divari di apprendimento.

Nella medesima direzione, infine, devono andare gli interventi per l’edilizia scolastica. Non tanto quelli – comunque utili – che questa estate hanno aiutato a fare più spazio al distanziamento anti-Covid, quanto i progetti ben più significativi ai quali dare un posto di rilievo nell’uso dei fondi Next Generation Eu. Accanto a maggiore sicurezza e sostenibilità degli edifici, dovremo essere capaci di immaginare spazi più accoglienti e flessibili, all’interno dei quali il rinnovamento della didattica e il miglioramento degli apprendimenti diventino obiettivi più credibili e realistici.